E’ solo un problema di Fratini?

Tutto è cominciato nel 1995, e da lì, un crescendo di musica sublime e interpreti straordinari in una cornice mozzafiato, paesaggi meravigliosi a 2000 metri che solo a vederli ti riempiono la testa di cose belle. Tutto bene quindi? Direi proprio di no.

Tralasciando i motivi tecnici e la loro misura (non voglio parlare qui di VIA, VAS e VINCA e di altri strumenti amministrativi e normativi che abbiamo a disposizione per misurare i diversi tipi di impatti dovute alle diverse attività antropiche; ci sono, lo sappiamo, ma qui, non servono), vorrei motivare il mio dissenso con una sola parola: rispetto.

E’ opportuno andare in una chiesa, o in un qualsiasi altro tempio di qualsiasi altra religione in calzoni corti e magari mangiando un panino o sorseggiando una bibita? Anche qui direi proprio di no, ma non per pudore religioso, per rispetto. Rispetto verso chi, in quei luoghi, cerca e trova una certa visione del mondo. Non serve condividerla. Basta saperlo. Non sarebbe neanche opportuno andare al lavoro in costume da bagno (a meno che non siate dei nuotatori!) o ascoltare musica con auricolari durante una conferenza, anche se l’argomento, o la sua stesura, risultano insopportabili. Non è rispettoso. Ci hanno educato a non farlo.

Se ci hanno insegnato a provare del disagio, una sensazione di fuori posto in molte realtà nelle quali le nostre necessità convergerebbero verso altro, queste istruzioni, evidentemente, non sono state programmate per gli “eventi” all’aperto (evito di dire “location naturali”, così, per un malessere personale).

Anzi, tornando all’incipit è sempre stato “colto” e sintomo di grande “sensibilità” ascoltare musica in alta quota. Un connubio tra cultura e natura, gli “eventi naturali” sono descritti sempre così. Sentire un violoncello che trasforma Bach in purezza assoluta, o un fiato che eleva il jazz verso un aureo benessere, diciamolo pure che non ha prezzo. Qui, ripetiamolo, classica e jazz, mica Jovanotti.

Già Jovanotti. Un artista “ambientalista”, un cantante amante della natura e degli animali. Uno che agli altri ci tiene. Non è un caso che chiede agli altri, a chi sa, prima di fare. Quindi prima sbanca, ma dopo rimetterà a posto, lascerà un ambiente più pulito. E’ anche probabile che si impegnerà economicamente in qualche “battaglia ambientalista”. Si informa chi c’è. Se sta covando, se sta allevando i piccoli, impara il termine trofico.

In tutto questo, non è solo, Jovanotti. Lo affianca qualche associazione ambientalista e condivide con la sua squadra un vero e serio sentimento verso tutto quello che ci circonda, il sole, la luna, le montagne, i fiumi, insomma tutto quello che non è lui. Voi ne dubitate? Io no. Io ci credo. Ho visto celebrare la biodiversità da addetti ai lavori con balletti e poesie in un’arena di cervi in bramito. Senza nessun disagio e senso della vergogna, anzi, con la profonda convinzione che quella sia la strada per una buona e giusta divulgazione e comunicazione scientifica. I Jovannoti, quindi, sono clonati e si riproducono, anche tra gli insospettabili.

Ma allora, cos’è che non ha funzionato e cosa non funziona? Provo a rispondere. Quello che non funziona la dicotomia tuttora esistente tra “cultura” e “natura”, o meglio tra “cultura umanistica” e “cultura scientifica”. Siamo ancora il paese delle due culture, e 30 anni di politiche ambientaliste non sono riuscite a creare ponti, a fare in modo che le due culture si fondessero, con beneficio per tutti.

Non siamo riusciti a superare il concetto di paesaggio e di sostituirlo con quello di ambiente. Le Dolomiti, e non solo, non sono un paesaggio, basta smettere di guardare e cominciare a vedere. E’ una pratica piuttosto antica. E’ da circa quattrocento anni che quando sostituiamo i due verbi ci si apre un mondo. Facciamolo. Adesso abbiamo gli strumenti. Usiamoli. Farlo non comporta più un’attività da addetti ai lavori. E’ anche economicamente vantaggioso. Già perché viviamo nell’era della economia della conoscenza. E, c’è poco da dire, vale la regola che se non conosci, non incassi. Quindi perché non cominciare a conoscere e ad incassare?

Ma innanzi tutto, perché finalmente non capovolgere il paradigma che ci porta a fare sempre le stesse cose solo in aree diverse? Perché trasformare un altopiano in una sala da musica? E soprattutto, perché lasciarlo fare? E’ valsa la pena continuare a pensare che tutto sommato una mancanza di rispetto, continuo a chiamarla così perché penso che questo sia il vero nocciolo della questione, limitata nel tempo e nello spazio, sia il male minore? Per chi? Per Camosci e Coturnici, forse, ma per la nostra specie? La resilienza degli ecosistemi montani verso “eventi localizzati e frequentati da pochi “(!) è in grado di ridurre il disastroso impatto culturale di un concerto in alta quota? Ne siamo ancora sicuri? E se vale per Bach, perché non funziona per Jovanotti in alta e bassa quota? Per il numero? E’ solo per il numero? Non credo sia questa la risposta che conta.

La risposta sta nel senso del disagio che noi tutti dovremmo provare quando si fanno cose appropriate in luoghi inappropriati. Non serve sapere che quei luoghi rimarranno inalterati dal nostro passaggio o che siano stati violati fino a tal punto che ormai qualsiasi cosa vi facciamo, sono ritenuti ormai perduti.

Credo che la chiave di svolta sia che, semplicemente, certe cose non dovremmo proprio farle. Altrimenti, perché non posso portare un Camoscio o un Fratino alla Scala, alla Fenice o in uno stadio?

 

Facciamo due chiacchiere con Claudio CELADA*
*Direttore dell’Area Conservazione della Lipu 

Claudio che ne pensi delle proteste che il tour di Jovanotti sta suscitando nel mondo ambientalista?

È una situazione che mi dispiace, perché penso che l’intento dell’iniziativa fosse positivo, ma il risultato rischia di essere davvero impattante sul territorio. Un conto è promuovere la connessione tra la nostra cultura, anche nei suoi risvolti più piacevoli, come è la musica di Jovannotti, un altro è portare decine di migliaia di persone in aree naturali sensibili con tutto quello che comporta.

Qualsiasi presa di posizione in questo genere di situazioni è a forte rischio strumentalizzazione.

La Lipu non poteva esimersi dal fare al sua parte per impedire impatti davvero inaccettabili non solo sul Fratino, assurta a specie simbolo in questa vicenda, proprio perché nidifica lungo i litorali, ma anche sugli ambienti dunali e retrodunali, ormai sottoposti ad ogni tipo di assalto.

 

Come giudichi il rapporto tra le associazioni ambientaliste e le spinte animaliste?

La Lipu si è battuta in sede europea per assicurarsi che l’utilissimo regolamento europeo sulle cosiddette specie invasive prestasse particolare attenzione ad evitare le sofferenze animali. Direi che questo ben sintetizza la posizione della Lipu.

Mi preme sottolineare come la scomparsa degli habitat (cioè la privazione della casa di molte specie animali) porti con se la sofferenza di molti animali selvatici. Allo stesso tempo non si può ignorare come la presenza di specie alloctone invasive metta molte specie in grado di non potersi difendere, vale a dire che il 100% di individui di una determinata popolazione animale soccombono.

E qui spesso ritardare le azioni con la speranza che la natura (ormai alterata) risolva il problema da sola è una strategia perdente. Uno dei più bei manifesti dell’animalismo è il libro “Homo deus” del Prof. Harari, che focalizza la sua attenzione sulle inaccettabili condizioni di vita degli animali domestici da allevamento.

 

Quanto pensi siano presenti i principi e parametri scientifici nelle associazioni ambientaliste italiane?

Vorrei evitare valutazioni autoreferenziali. Gran parte delle associazioni raggruppa sensibilità diverse. Ciò rappresenta una grande ricchezza ma pone anche delle limitazioni.

La mia personale esperienza è che fare i conto con punti di vista eterogenei sia quasi sempre un bene. Detto questo, non tutte le organizzazioni ambientaliste dedicano la stessa attenzione agli aspetti scientifici. Penso che la chiave stia nel fatto di non voler lavorare sempre da soli. Il confronto con Ispra e con l’Università in genere è un valore imprescindibile a cui teniamo. A volte ne influenziamo anche il pensiero.

Oggettivamente, la Lipu negli ultimi vent’anni, ha prodotto numerose pubblicazioni su riviste scientifiche referenziate, oltre che report tecnici grazie a collaborazioni con il Ministero dell’Ambiente e con il Ministero delle Politiche Agricole

 

Quali pensi siano i maggiori risultati ottenuti dalla Lipu nella tutela dell’ambiente nel nostro paese?

La Lipu ha una forte tradizione per quanto concerne l’implementazione della Direttiva Uccelli e Rete Natura 2000. A partire dall’individuazione delle Important Bird Areas terrestri e marine che hanno spianato la strada alle Zone di Protezione Speciale, alla messa a punto delle misure di conservazione di questi siti, per passare alla difesa dei siti in pericolo.

Forte è anche la tradizione in materia di contenimento degli effetti più deleteri dell’attività venatoria e la lotta contro il bracconaggio.

 

Le aree a diverso regime di protezione (Parchi e Rete Natura 2000) dovrebbero essere degli esempi di contaminazione culturale ambientale per il resto del territorio. Pensi che nel nostro paese abbiano raggiunto lo scopo?

In parte, nonostante la governance zoppicante che spesso affligge queste aree. Molto di più si potrebbe e si dovrebbe fare in materia di progettualità innovativa, incentrata sulla sintesi tra conservazione della biodiversità e dell’ambiente in genere e cultura.

Qui serve un pò meno retorica e maggiore capacità progettuale che coinvolga i territori. Ma non dimentichiamo l’ottimo lavoro già avviato da numerose aree protette ben gestite.

 

Claudio la tua è una visione conservativa internazionale. Quali sono le maggiori differenze nella gestione delle aree a diverso regime di protezione in Italia e nel resto del mondo?

Sia per esperienza diretta che per vocazione, amo confrontare le diverse esperienze gestionali anche in un’ottica multi-culturale.

Un aspetto eclatante è dato dalla rilevanza che le aree protette di diversi Paesi danno al tema della conservazione della biodiversità in senso stretto. Penso che il nostro Paese, fatti i conti con la densità abitativa, debba aumentare la superficie di aree strettamente protette (sensu riserve naturali), mentre in altri Paesi, anche europei questa tipologia è maggiormente diffusa.

Soprattutto penso che per il futuro la chiave sia nella creazione di reti ecologiche di ampia scala (da noi possibili ad esempio sull’Appennino) che garantiscano ampia possibilità di movimento per molti organismi in chiave adattativa.

Sottolineo infine come, in alcuni Paesi (ad es gli Stati Uniti occidentali), le aree protette private assumano un’importanza quasi pari a quella delle aree pubbliche.

Su questo tema l’Italia ha davvero molta strada da percorrere.

Grazie Claudio

 

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