Non è una crisi (soltanto) climatica

di Marco SALVATORI*

* Dottorando di ricerca (PhD student)
MUSE, Museo delle Scienze di Trento
Università di Firenze, Dipartimento di Biologia

Il fallimento della conferenza internazionale sul clima di Madrid ha sollevato l’indignazione di una larga fetta dell’opinione pubblica mondiale. Negli ultimi anni la questione climatica ha assunto una posizione cruciale nel dibattito pubblico e ormai ogni lettore di giornale comincia a familiarizzare con le dinamiche del ciclo del carbonio. Gli eventi climatici estremi, come inondazioni, bombe d’acqua, siccità e temperature anomale si stanno già verificando con frequenza ed intensità maggiore, tanto che anche l’uomo della strada inizia a toccare con mano le conseguenze delle alterazioni climatiche. La sensibilità degli italiani al tema è stata certificata da un sondaggio recentemente effettuato dall’istituto demoscopico SWG, dal quale emerge come il cambiamento climatico sia in cima alla classifica delle apprensioni, selezionato come massimo fattore di preoccupazione dal 51% degli intervistati. Già un sondaggio dell’anno scorso, commissionato dalla Banca Europea degli Investimenti, mostrava come il popolo italiano fosse quello più preoccupato per il cambiamento climatico fra tutti quelli dell’Unione Europea.

 

Grifone – Gyps fulvus. Categoria della lista rossa italiana: IN PERICOLO CRITICO

Questa tendenza generale si è riflessa anche in un’aumentata copertura mediatica del tema, e in molte persone inizia a farsi strada la convinzione che ci troviamo nel bel mezzo di una crisi climatica. Il dibattito pubblico si è fino ad ora concentrato sulle emissioni di gas climalteranti e di come ridurle trasformando gli impianti di produzione di energia attraverso la transizione alle energie rinnovabili. Spesso a livello giornalistico quando si affronta il tema del contrasto al cambiamento climatico si finisce in un’argomentazione che si avvita verso “il miracolo tecnologico che ci salverà”, il coniglio tirato fuori dal cilindro di qualche ingegnere geniale. Questa visione poco lungimirante non tiene conto di tutte le variabili in campo: siamo sicuri di trovarci in una crisi soltanto climatica?

Quando nel 1497 l’esploratore italiano Giovanni Caboto attraccò sulla penisola canadese che poi avrebbe ribattezzato come ‘Terra nova’, riportò sul suo diario di bordo che il mare era talmente ricco di pesci che era possibile pescarli non soltanto con le reti, ma più semplicemente immergendo dei secchi nell’acqua. Poco meno di 500 anni dopo, nella sera del 2 Luglio 1992 in quella stessa provincia del Canada, centinaia di pescatori inferociti assaltano a spallate la porta della stanza in cui il ministro federale alla pesca, John Crosbie, sta annunciando ai giornalisti il divieto totale alla pesca del merluzzo nordico. Il governo canadese prende atto del collasso totale della popolazione di merluzzo e si vede costretto a bandirne la pesca commerciale, causando la perdita dell’impiego per 37.000 lavoratori e, conseguentemente, il disfacimento di un’intera comunità locale. Ventisette anni dopo, la popolazione di merluzzo nordico non si è ancora ripresa, la sua consistenza resta tuttora ben al di sotto del limite di guardia, ed il suo prelievo rimane consentito soltanto per la pesca ricreativa. Come è stato possibile tutto ciò? Negli anni successivi al 1960 l’introduzione di innovazioni tecnologiche nei pescherecci combinata all’espansione della flotta non ha dato tregua ai merluzzi. Soltanto fra il 1962 ed il 1977 la biomassa della popolazione era calata dell’80%. Purtroppo non si tratta di un caso isolato. Al momento il 60 % delle specie ittiche marine viene sfruttato al massimo della sua capacità rigenerativa ed un ulteriore 33% è sovra sfruttato e di conseguenza declinerà rapidamente nei prossimi anni.

 

Pelobate fosco – Pelobates fuscus. Categoria della lista rossa italiana: IN PERICOLO                                Gentile concessione di Jelger Herder

Un gruppo di entomologi americani l’ha battezzato “effetto del parabrezza”: quando negli anni Sessanta si attraversava con l’automobile una strada di campagna il parabrezza si ricopriva di insetti, tanto da dover fermarsi periodicamente per rimuoverli, appena quaranta anni dopo i vetri delle auto che attraversano quelle stesse strade sono intonsi. Si tratta di un aneddoto che molte persone di mezza età possono raccontare, e che è stato misurato e valutato scientificamente in diverse ricerche. Fra il 1989 ed il 2016 un team di biologi tedeschi ha catturato insetti in 63 località agricole della Germania per una ricerca a lungo termine. I preziosi dati raccolti in un intero trentennio hanno certificato un declino catastrofico, equivalente all’82% della biomassa. In questo studio, pubblicato nel 2017, i ricercatori hanno potuto verificare che questa drastica diminuzione riguardava non soltanto le specie di insetti più rare e a rischio di estinzione, ma anche le specie più comuni e diffuse. Gli autori di questo studio hanno imputato questo fenomeno principalmente al cambiamento delle pratiche agronomiche, con una maggior meccanizzazione, eliminazione di siepi, una frequenza più alta e pervasiva dell’aratura, un massiccio utilizzo di fertilizzanti e pesticidi. Conclusioni simili si potevano già ricavare da studi su falene e farfalle della Gran Bretagna, che evidenziavano un significativo declino della numerosità delle popolazioni in due terzi delle specie studiate. In questo caso le cause principali, oltre all’intensificarsi delle pratiche agricole, sono state individuate nella rimozione di boschi, siepi, praterie e nell’espandersi dell’urbanizzazione con la cementificazione del suolo. Questi studi si inseriscono all’interno di una mole di ricerche tendenzialmente concordi nel documentare un significativo, rapido e imponente declino nel numero degli insetti, ed hanno portato la comunità scientifica a parlare di un vero e proprio “armageddon” entomologico. A parte una ristretta minoranza di naturalisti ed appassionati, la maggior parte delle persone prova sentimenti di repulsione nei confronti degli insetti e potrebbe non essere particolarmente colpita da questi dati. Il punto è che gli insetti svolgono un ruolo chiave negli ecosistemi, primo fra tutti quello dell’impollinazione: oltre il 75% di tutte le varietà di piante coltivate richiede l’impollinazione animale. La quasi totalità delle piante a fiore selvatiche è impollinata da animali. Per dirla con il grande biologo Edward O. Wilson gli insetti sono “quelle piccole cose che fanno funzionare il mondo”. Il declino della biodiversità degli invertebrati colpisce anche le specie che vivono all’interno del suolo, depauperando la fertilità dei terreni, in particolare della loro materia organica. Effettivamente i suoli si stanno impoverendo, in particolare quelli agricoli, ed ancora una volta si tratta di un fenomeno che rischia di minare alla base la produzione del cibo per gli esseri umani.

Di tutte le specie vegetali ed animali finora valutate dall’ Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) il 25% risulta a rischio di estinzione: l’equivalente di un milione di specie viventi si estinguerà nel giro di pochi decenni se non verranno messi in atto progetti di conservazione. Molte specie scompariranno prima ancora che gli studiosi le scoprano e le classifichino. Per quanto riguarda il nostro paese i dati delle liste rosse, che valutano lo stato di conservazione delle diverse specie, non sono affatto confortanti: il 31% dei vertebrati italiani è minacciato di estinzione. Scorrendo tale lista non si può non rimanere colpiti dalla presenza di specie fino a poco tempo fa considerate molto comuni, come l’allodola, l’alzavola, l’anguilla, il rospo comune (nomen omen) e persino la passera d’Italia, che fino a pochi anni fa conviveva con gli esseri umani in quasi tutte le città e i borghi della penisola e ha subìto una pesante diminuzione. Il processo va però oltre il rischio di estinzione di alcune specie, perché comprende un decremento generale del numero di individui, e quindi della biomassa, di quasi tutte le specie selvatiche viventi, anche di quelle più comuni e diffuse. Alcuni ricercatori hanno coniato il termine “de-faunazione” per descrivere questo fenomeno antropogenico. In tutte le specie di vertebrati selvatici si è assistito ad una diminuzione media della numerosità del 25 %, dato che sale al 45% per gli animali invertebrati.

Ma quali sono le cause di questa erosione della diversità ed abbondanza della vita sul nostro pianeta? È forse il cambiamento climatico antropogenico il principale responsabile? La risposta è assolutamente no. Il cambiamento climatico è il principale impatto solo per alcune specie, come quelle che compongono o abitano le barriere coralline, quelle che risiedono alle elevate altitudini montane, quelle adattate a regioni aride, o quelle che vivono nell’artico. Senza dubbio il cambiamento climatico impatterà sempre più fortemente sulle specie viventi e sugli ecosistemi con l’andare del tempo, viste le ultime previsioni dell’IPCC, il comitato scientifico delle nazioni unite sui cambiamenti climatici, che prevedono un innalzamento della temperatura media di 1,5 gradi nei prossimi venti anni e di 3 gradi a fine secolo, stanti le attuali tendenze. Ma al momento gli organismi terrestri stanno venendo decimati principalmente dalla distruzione e dalla frammentazione del loro habitat operata dall’uomo, come conferma l’ultimo rapporto dell’IPBES, il comitato scientifico delle nazioni unite sulla biodiversità ed i servizi ecosistemici (molto meno famoso del suo “cugino” IPCC, ma egualmente importante).

Oltre un terzo della superficie terrestre è dedicata all’agricoltura e all’allevamento di animali domestici, superficie strappata alle foreste, alle praterie, alle aree umide. Allorché una superficie di foresta o di prateria viene convertita in terra coltivabile, la biodiversità di quel sistema crolla immediatamente, fino quasi ad annullarsi. L’effetto è ancora più drastico se la conversione porta all’urbanizzazione, e dal 1992 l’estensione delle aree urbane è più che raddoppiata. Attraverso la deforestazione, la bonifica delle aree umide, la cementificazione del suolo abbiamo distrutto e frammentato gli habitat naturali. La crescita esponenziale nel numero di strade ed autostrade ha ulteriormente isolato i frammenti di habitat rimasti, rendendo difficoltoso o impossibile lo spostamento degli individui fra un habitat idoneo e l’altro. Come dimostrato da una ricerca internazionale del 2018, gli animali tendono a muoversi di meno in aree fortemente antropizzate, effettuando spostamenti più a corto raggio, spesso ostacolati dalla presenza pervasiva delle infrastrutture umane e dall’assenza di corridoi ecologici. Se gli individui non riescono a muoversi fra i frammenti di habitat superstiti si interrompe il naturale scambio che mantiene vitali le popolazioni di qualsiasi organismo. Le piccole popolazioni isolate e formate da individui con elevato grado di consanguineità sono destinate a soccombere nel giro di poche generazioni.

Nell’era della globalizzazione e dei mezzi di trasporto intercontinentali, il secondo impatto per ordine di importanza è costituito dalle specie alloctone invasive. Si tratta di specie vegetali e animali che, volontariamente o involontariamente, vengono trasferite dagli esseri umani a migliaia di chilometri di distanza dal loro luogo di origine. Alcune di queste specie trovano nel nuovo ambiente, privo dei loro naturali concorrenti presenti nell’ecosistema originario, le condizioni perfette per diffondersi indisturbate. Queste diffusioni molto spesso avvengono a scapito delle specie native del luogo, che subiscono la “concorrenza sleale” e si avviano verso il declino. Ogni ecosistema locale è formato da una peculiare comunità di specie che si sono adattate alle condizioni ambientali locali e si sono co-evolute nei millenni, convivendo in un equilibrio dinamico. Ogni luogo del pianeta sarebbe perciò naturalmente caratterizzato da un determinato insieme di specie, ma negli ultimi decenni questa unicità delle comunità locali è messa in crisi dalle specie alloctone. Il fenomeno è talmente esteso e rilevante che stiamo assistendo ad una sorta di “globalizzazione della biodiversità”, in cui l’uomo sta rendendo più simili fra loro ecosistemi anche molto distanti, favorendo la diffusione delle specie generaliste, quelle in grado di sopravvivere in un ampio spettro di condizioni ambientali, a scapito di quelle specialiste, adattate a specifiche condizioni locali. I dati di ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) indicano che la lista delle specie alloctone invasive per il nostro paese è in costante aumento. Solo per citarne alcune: la zanzara tigre, la tartaruga americana dalle orecchie rosse, lo scoiattolo grigio americano, il gambero rosso della Louisiana, il siluro del Danubio, il gatto domestico, l’ailanto. Tutte queste specie, e centinaia di altre, danneggiano le specie native, compromettendone la sopravvivenza.

Dato che il dibattito pubblico si concentra sulle emissioni di gas serra e su come ridurle senza modificare sostanzialmente gli stili di vita è lecito porsi una domanda: se, per ipotesi, riuscissimo a convertire l’intero nostro settore energetico in modo da non renderlo più dipendente dai combustibili fossili le pressioni sulle specie viventi e sugli ecosistemi cesserebbero? In altre parole, qualora fossimo in grado di applicare motori elettrici alimentati da energie rinnovabili a mezzi di trasporto, pescherecci, ruspe, persino aerei e azzerassimo le emissioni climalteranti si fermerebbero automaticamente la sovra-pesca, la deforestazione, la frammentazione degli habitat, la cementificazione, il proliferare di strade e barriere ecologiche, la propagazione delle specie alloctone? Certamente no. Affrontare il cambiamento climatico soltanto con l’utilizzo di tecnologia, ammesso che sia possibile, lascerebbe invariate le pressioni sul mondo vivente e non eviterebbe, da solo, il collasso degli ecosistemi.

 

Testuggine Palustre Europea – Emys orbicularis. Categoria lista rossa italiana: IN PERICOLO Gentile concessione di Riccardo Muraro

Prendiamo l’utilizzo dell’energia eolica: uno studio di quest’anno pubblicato sulla rivista “Energy Policy” ha calcolato il potenziale energetico del continente europeo qualora tutte le aree disponibili e tecnicamente idonee, cioè quasi metà dell’intera superficie del continente, fossero dedicate all’impianto di turbine eoliche. I risultati ad un primo sguardo sono stupefacenti: con una tale massiva installazione di pale eoliche l’Europa da sola sarebbe in grado di soddisfare l’intera domanda energetica mondiale. Fantastico! Ma hanno gli autori di questa pubblicazione considerato l’impatto che una tale gigantesca operazione avrebbe sull’avifauna? Diverse ricerche hanno misurato l’impatto che le pale eoliche possono avere sugli uccelli, e i risultati sono preoccupanti, specialmente considerando alcune fasi delicate come le migrazioni. Senz’altro l’energia eolica può esserci utile per eliminare l’utilizzo di combustibili fossili, ma erigerle ovunque senza tenere in considerazione la biodiversità porterebbe ad un grave danno per le già vacillanti popolazioni di uccelli.

Simili conclusioni possono essere ricavate per quanto riguarda l’energia idroelettrica, considerata da molti un’energia “pulita”. Le dighe causano alterazioni profonde degli ecosistemi fluviali ed ostacolano il movimento degli organismi acquatici lungo i corsi d’acqua. In questo caso esistono misure di mitigazione, come le scale di risalita per i pesci, ma di nuovo edificare dighe in ogni corso d’acqua del mondo per eliminare l’emissione di anidride carbonica causerebbe danni profondi alle comunità biologiche dei fiumi, già sotto pressione per le specie alloctone e l’inquinamento delle acque. Se i pescherecci dotati di sofisticate strumentazioni GPS e celle frigorifere fossero alimentati da energia rinnovabile invece che dal petrolio, sarebbe forse la sovra pesca meno dannosa per la fauna marina? Se le ruspe e le seghe che abbattono le foreste tropicali fossero dotate di batterie al litio sarebbe la deforestazione meno esiziale per le comunità biologiche che le abitano? Anche immaginando che l’umanità si dotasse di fonti di energia che non abbiano nessun impatto diretto sugli ecosistemi, come per esempio la mitica fusione nucleare, se continuassimo ad utilizzare l’energia ricavata contro la biosfera staremmo comunque andando incontro alla crisi ecologica. L’umanità non sta solamente aumentando l’entropia dell’atmosfera terrestre, ma anche quella delle comunità biologiche, e questi due processi vanno considerati insieme. Focalizzarsi sul cambiamento del clima senza tenere presente la perdita di biodiversità può forse essere per molti una visione confortante, perché insita nella visione antropocentrica dell’universo tipica delle culture occidentali, nella quale gli altri esseri viventi non occupano un posto di rilievo. Questa prospettiva è però estremamente parziale e, come abbiamo visto, può portare a escogitare false soluzioni.

Quindi che fare? Una volta messi a fuoco entrambi gli aspetti della crisi ambientale contemporanea, cioè il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, con un approccio integrato, riconoscendo le cause comuni così come le peculiarità specifiche emerge spontaneamente una soluzione possibile. Si tratta del ripristino ecologico. Laddove gli habitat naturali sono stati distrutti o fortemente degradati è possibile reintegrare l’ambiente originario, ricreando foreste, praterie, torbiere, aree umide. Per ripristinare degli ecosistemi sani è necessario inoltre favorire la presenza di alcune specie animali e, laddove opportuno, reintrodurle. Si ristabilirebbe così la corretta struttura di vegetali, erbivori, predatori, necrofagi e detritivori e di conseguenza si ricreerebbe la naturale dinamica del ciclo degli elementi minerali come carbonio, azoto, fosforo e il corretto ciclo delle acque. Ciliegina sulla torta, la rinaturalizzazione degli ecosistemi su larga scala consentirebbe di risucchiare dall’atmosfera grandi quantità di anidride carbonica, trattenendola nei tessuti viventi e nei suoli, consentendoci in un colpo solo di contrastare sia la perdita di biodiversità che il cambiamento climatico. Come se non bastasse, tale operazione, da compiersi impiegando le migliori competenze botaniche, zoologiche ed ecologiche, porterebbe ad ingenti benefici per la salute psico-fisica degli esseri umani, soprattutto se ad essere ripristinati fossero gli ecosistemi agricoli e periurbani, al momento i più degradati.

Un esempio involontario di ripristino ecologico è dato dalla progressiva riforestazione delle aree montane e collinari della nostra penisola: i boschi coprono ad oggi oltre il 35% del territorio nazionale e la loro superficie è raddoppiata rispetto al 1930. Come conseguenza dell’abbandono di queste aree più impervie da parte di milioni di persone che, a partire dagli anni Sessanta, sono andate vieppiù concentrandosi nelle città delle zone pianeggianti e costiere, le foreste hanno recuperato i terreni che erano stati loro sottratti secoli prima. Si è trattato di un processo guidato dalle tendenze socioeconomiche, e non certo di un ripristino ecologico volontario e programmato. Ciononostante, i risultati sono sorprendenti: assieme al bosco sono ritornate molte specie animali che fino a pochi decenni fa erano ridotte ai minimi termini, come cervi, caprioli, cinghiali, camosci, lupi, istrici e moltissime altre.

 

Lontra europea – Lutra lutra. Categoria della lista rossa italiana: IN PERICOLO

Esiste oggi la possibilità di restituire volontariamente alla natura vaste aree degradate, come porzioni della pianura padana, una delle aree più antropizzate al mondo, con vasti benefici per il clima, la biodiversità ed il nostro benessere. Sta a noi cogliere questa opportunità.

 

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