Franco PERCO* : la gestione faunistica tra tecnica ed etica

*Già Direttore Osservatorio Faunistico di Pordenone
*Già Direttore Parco Nazionale Monti Sibillini

 

Franco PERCO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quello che ha caratterizzato la tua figura professionale e quella di molti colleghi presenti anche nelle diverse istituzioni come Ministeri, Enti locali e Università, è stata la capacità non solo di accettare (a diversi livelli) ma di spingere, volere e cercare di lavorare per favorire l’entrata della conservazione della natura e, in particolare, della gestione faunistica nel panorama culturale italiano. Adesso, a che punto siamo?
Accettare, a diversi livelli, mi piace. Solo che “accettare” va inteso in senso comunicativo, cioè costruire un rapporto, una dialettica, parlare e anche litigare, ma non chiudere mai la porta in faccia. Ho – abbiamo – accettato il dialogo, la discussione: non tanto i contenuti. Sui quali, in diverse occasioni, dove si poteva e con chi si doveva, abbiamo espresso pareri diversi.
Saltando ciò che è stato fatto, l’elenco non sarebbe facile, mi chiedi “a che punto siamo?”. Siamo al ben noto punto “della delusione indomita”. Delusi, ma senza abbassare le armi.
A dir il vero poche volte siamo stati contenti o, almeno, fiduciosi. Potrei citare, per quanto mi riguarda, dal 1972 al 1996 nel FVG (Friuli Venezia Giulia ndr), ma a salti, alternando momenti di sconforto e altri di entusiasmo. Inoltre, a livello nazionale, subito dopo la 394 (1991), per un breve periodo. E poi, nel momento di Natura 2000. Un entusiasmo canguroide, dunque. Oggi? Beh, non possiamo che risalire. Ma scherzo, qualcosa di buono è stato fatto.
Posso avere un avvocato?

Mi piace il concetto di delusione indomita e lo condivido. È una qualità umana, eterna, di chi vorrebbe il meglio. Ma, cosa intendi esattamente per “canguroide”?
Il Canguro (iniziale maiuscola) salta e quindi evita ostacoli ma non è detto che vada sempre verso la meta giusta. In un certo senso può anche fare anche grandi salti indietro. Quindi è un “progresso” che può avere molte ombre.

Spiegati meglio, Franco
Inizio con il discutere la prassi dell’evitare gli ostacoli, modulo comportamentale tipico del Canguro. Ma è il termine ostacolo che voglio correggere, da subito. Dovremmo – ma qui veniamo ai casi nostri e lasciamo perdere le similitudini – sostituire ostacoli con problemi o questioni. Saltare un ostacolo, evitarlo è buona cosa. Ma “evitare” un problema non va bene. E il mondo dei conservazionisti, sia quando era soddisfatto ma anche quando non lo era, ha evitato di andare a fondo sui quesiti posti dalla gestione faunistica.
Insomma, ci si è accontentati dei risultati raggiunti, quando c’erano, senza andare a indagare la struttura della gestione.

Cioè?
Analizzare i problemi strutturali della gestione faunistica in Italia poteva essere pericoloso. In primo luogo i conservazionisti, come categoria generica, non hanno obiettivi comuni e condivisi. O meglio. L’obiettivo è la conservazione, ok?

Certo
Bene. Ma questo è banale. È il “come” lo si raggiunge che divide i professionisti, i cultori, gli appassionati di Natura.
Poiché il come diventa a sua volta un obiettivo, secondo il consueto schema dei “mezzi che diventano fini”. E allora, l’analizzare sino il fondo il “come” avrebbe spaccato il fronte.

Vediamo se interpreto bene quello che sostieni. L’obiettivo è la conservazione, mettiamo del Camoscio. Il “come” può essere, per esempio, vietando la caccia, reintroducendolo, facendo una caccia di selezione e migliore, opponendosi a interventi distruttivi dell’ambiente etc.. Il primo trova i cacciatori contrari ma piace agli ambientalisti, il secondo è oneroso anche socialmente, il terzo spacca il fronte venatorio e non convince gli altri, il quarto significa entrare nella politica e ruffianarsi con i partiti e con gli amministratori. È questo che intendi?
Esattamente. E tutto questo con una specie facile da gestire, come il Camoscio. Ma come si diceva, densa di problemi di vario tipo, sociali e non solo. In genere, le categorie interessate alla gestione faunistica sono gli ambientalisti e i cacciatori. Più raramente anche gli agricoltori e meno ancora i cittadini. Ma le prime due categorie si dividono sempre sul “come” conservare e questo è uno dei problemi più grossi.
Dobbiamo riconoscere che non siamo andati a fondo in questa intricata questione. L’abbiamo saltata, da bravi canguri entusiasti.

Mettere tutti d’accordo è però impossibile. Anche se, professionalmente, non rifiuto un compromesso, in vista di obiettivi chiari.
Condivido. Ma l’analisi è mancata anche sotto un altro punto di vista. E, bada bene, è quello che sta avvenendo oggi.

Allora, vediamo il secondo punto.

(continua)

Però, Franco, ci sarebbe prima un’altra questione. Al di là dei difetti dell’analisi. Il mondo venatorio e il mondo ambientalista invocano spesso motivi, obiettivi e risultati “etici”. Il tutto spesso a caso e non è un accidente di percorso, visto che spesso anche i professionisti dell’etica riescono a parlarne per ore senza darne una definizione se non un generico “modo di stare nel mondo” (anche il mio sistema immunitario mi fa stare al mondo). Non credi che l’etica sia un pessimo surrogato di assenza di tecnica?
Hai ragione. Ma mi spingerei un po’ più in là. L’etica di permette di restare in superficie, di evitare il discorso tecnico. La Nutria non si tocca. Perché la sua incolumità è sacra. Piuttosto la catturiamo e la liberiamo da qualche parte oppure la ospito nel mio giardino.
Permettimi l’ironia: sono soluzioni nutrienti per l’ego “animalista”.
Io, invece, sono per l’etica della responsabilità (Verantworungtsethik) nel senso più weberiano del termine. Ciò che vorremmo si faccia, ciò che è morale, va giudicato e valutato per gli effetti che produce. Al contrario, l’etica dei principi (Gesinnungsethik) dice di operare secondo i propri valori, quelli di ciascuno, costi quello che costi. Ora, nella gestione faunistica, che è poi il nostro rapporto con gli animali selvatici, difendere i nostri valori diventa spesso un autogol. In primo luogo perché non risolve il problema e quindi si è costretti ad affrontarlo, continuamente. In secondo luogo perché questo atteggiamento non è “empatico”, cioè ignora i problemi (umani) altrui. Chi se ne frega dello stato di disagio, di – poniamo – Paolo Rossi? Io, almeno, sono a posto con la mia coscienza. Dicono e pensano così, questi simpatici (!) avversari. Vuoi alcuni esempi? Facile: sono i casi ben noti del Cinghiale e del Lupo.

(continua)