Gatti: predatori e prede

I flame sui gatti sono una costante nei social media, ma non solo. Generalmente al gatto viene contestato il ruolo di predatore affiliato alla nostra specie, sempre più raramente se ne parla come preda e in entrambi i casi, piaccia o meno, le loro “colpe” ricadono su di noi che ne siamo responsabili (direttamente e indirettamente)

Un mese fa, a Vouliagmeni (20 km est di Atene) un’amica vive una esperienza molto impattante quando la sua micia diventa una preda.

Macri PURICELLI è una giornalista con una intensa empatia verso gli altri animali, protagonisti dei suoi libri

 

 

 

 

Agricoltura, cibo e ambiente, tra percezioni popolari e scomode verità.

Come i cittadini del Terzo Millennio si pongono rispetto a temi delicati e complessi al contempo, quali la produzione di cibo e i suoi rapporti con la salute e con l’ambiente

L’agricoltura sembra tremendamente facile quando il tuo aratro è una matita e sei lontano migliaia di chilometri dal campo di grano.”

Una frase, divenuta poi celebre, di Dwight Eisenhower, prima Capo di stato maggiore dell’esercito degli Stati Uniti, poi presidente per due successivi mandati. Erano gli anni in cui il boom demografico mondiale faceva lievitare la richiesta di cibo, proprio mentre le campagne si spopolavano a favore delle città. Due fenomeni fra loro in contrasto che avrebbero presto condotto agli attuali scenari agricoli, economici e sociali del Mondo occidentale. Scenari divenuti spesso conflittuali, nei quali sono molte più le persone che, appunto, impugnano una “matita” di quelle che adoperano un aratro. Ciò ha condotto a un profondo scollamento fra realtà e percezione delle dinamiche agricole e agroalimentari, perdendosi nel tempo gli ordini di grandezza dei fenomeni globali agricoli e demografici.

Diverse quindi le domande cui dare risposta, a partire dai fenomeni che hanno generato una spasmodica ricerca di naturalità nei cibi e negli stili di vita, ponendosi in dura contrapposizione ad attività produttive divenute invece fortemente tecnologiche, come appunto l’agricoltura moderna. Questa è davvero la macchina di morte che viene descritta, con la complicità dell’industria alimentare e della grande distribuzione, oppure è la recente narrazione  mediatica ad aver alterato la percezione popolare dei molteplici rapporti rischi/benefici dell’attuale società? Per meglio comprendere tali dinamiche si è deciso di intervistare Donatello SANDRONI, giornalista e divulgatore scientifico, laureato in Scienze agrarie con dottorato in chimica, biochimica ed ecologia degli antiparassitari.

In un paese caratterizzato da decenni di convergenze parallele e di posizioni manichee su qualsiasi argomento, c’è un punto fisso sul quale tutta l’Italia converge: la bontà del cibo naturale. Il cibo naturale è buono (nessuno mai discuterebbe il suo valore organolettico), il cibo naturale fa bene (nessuno mai discuterebbe il suo valore intrinseco salvifico). L’egemonia del consenso, però, lascia il passo all’angoscia e alla inevitabile polarizzazione delle nostre opinioni quando dobbiamo definire che cosa esattamente sia il cibo naturale. Qualche definizione utile?

Semplicemente, il cibo naturale esiste per lo più nel marketing di chi lo vende. Un pesce pescato in mare può essere considerato naturale, a patto di prenderlo così com’è con una canna da pesca e cucinarselo in padella, che di per sé ha già poco di naturale. Se poi si compra quel pesce al supermercato, bello pulito in un plateau di polistirolo, o magari surgelato, la sua naturalità a mio avviso perde già parecchi punti. Del tutto innaturale invece il grano che abbiamo usato per farci un piatto di pasta, né ha alcunché di naturale una moderna melanzana, un pomodoro, una mela o qualsiasi altro frutto od ortaggio comunemente reperibile oggi sul mercato.

I loro antenati erano completamente diversi, tanto che spesso risultavano immangiabili. Tanto meno può essere considerato “naturale” il vino, moda di recente successo su media e social, dal momento che tale prodotto deriva da una domesticazione selettiva di una pianta rampicante spontanea, la vite, i cui frutti sono stati migliorati nel tempo proprio al fine di essere schiacciati e avviati a processi di trasformazione guidati dalla mano dell’uomo. Sperando peraltro che la mano sia bella ferma, o il vino diventa imbevibile, checché ne dicano certi produttori di vino “del contadino” che hanno la sfacciataggine di spacciare per peculiarità distintive dei gravi difetti olfattivi e organolettici. Da circa diecimila anni, da quando cioè l’Uomo ha abbandonato lo status di cacciatore-raccoglitore divenendo agricoltore-allevatore, tutti i vegetali coltivati e gli animali allevati sono stati soggetti a una profonda e continua selezione nel tempo al fine di essere più adatti ai nostri bisogni.

Nessuno oggi riconoscerebbe il mais nel Teosinte centro americano da cui deriva. Anche i nostri amati cereali, perfino i più tradizionali, sono stati modificati. Non solo con la semplice selezione, già di per sé alterazione mirata e continua delle genetiche ancestrali, ma anche applicando tecniche più recenti di manipolazione genetica tramite radiazioni o sostanze mutagene al fine di ottenere individui mutanti portatori di caratteri a noi più utili. Il triticale, per esempio, è l’incrocio tra frumento e segale. Qualcosa che in natura avrebbe la probabilità di avverarsi pari a una su incalcolabili miliardi. Noi abbiamo invece usato su di essi un alcaloide, la colchicina, e questa ha raddoppiato il materiale genetico dell’organismo derivante dall’incrocio “contro Natura”, rendendolo fertile. Eppure il triticale si vende anche nei negozi biologici e pure a caro prezzo.

Ciò che lascia basiti è che ai cittadini sono stati mostrati questi cereali come “naturali” e addirittura “biologici”, mentre gli Ogm vengono descritti come catastrofici mostri di Frankenstein. In realtà è da molto tempo che coltiviamo e mangiamo organismi geneticamente modificati per mano dell’Uomo, sarà bene accettarlo. E pensi, alcuni di questi organismi, come appunto il succitato triticale, sono coltivabili perfino in biologico. Per lo meno stando alla normativa attuale che, per assurdo, non li classifica come Ogm. Cosa che potrebbe però cambiare se l’Unione europea legifererà coerentemente a quanto deciso circa un anno fa dalla Corte di Giustizia in tema di biotecnologie. Rivoluzionando infatti lo statu quo, secondo la Corte vanno considerati Ogm tutti gli organismi ottenuti alterandone il DNA in modo artificiale. Tutti, indipendentemente dalle tecniche usate: che sia tramite il modernissimo genome editing o usando l’ormai noto trasferimento di geni da un organismo all’altro, i famigerati “transgenici”, oppure ancora che sia tramite radiazioni o sostanze mutagene. Tutti Ogm. Se lo immagina quanti prodotti che oggi vantano la scritta “No-Ogm” dovrebbero rinunciare al loro marketing del “senza” se la decisione della Corte di Giustizia divenisse Legge? Personalmente non aspetto altro, dal momento che verso il “marketing del senza” nutro una istintiva antipatia.

Pesticidi e agrofarmaci: qual è la differenza? E anche in agricoltura vale sempre il principio che è sempre la dose che fa il veleno?

Pesticida deriva dall’inglese “pesticide”, cioè uccisore di peste. Messa così dovrebbe essere percepito positivamente. Purtroppo, il martellamento allarmista fatto su questa categoria di prodotti ha di fatto trasformato questo termine in qualcosa di mortifero e lugubre. Agrofarmaco significa la stessa cosa, ma è più asettico perché richiama il concetto di cura. In tal caso delle piante. Ma pensi che a un convegno in cui intervenivo come relatore venni contestato perché mentre i farmaci umani vanno benissimo, perché ovviamente grazie ad essi si curano le persone, suvvia… ma le piante… Come se le piante non si ammalassero e non andassero quindi curate. Il mio contestatore riteneva infatti che questi prodotti non solo fossero pericolosi, ma per giunta inutili.

Una percezione altamente fuorviata che affonda le radici in due distinti fenomeni. Da un lato la popolazione ha ormai reciso da troppo tempo i legami con l’agricoltura e finisce col dare per scontato il cibo che le viene messo a disposizione. Dall’altro patiamo di una comunicazione spesso ideologica – e a tratti disonesta – che prima terrorizza le persone contro i pesticidi e poi le illude che vi siano prodotti alternativi, quasi taumaturgici perché non trattati, intonsi, appunto “naturali”.  Di fatto, un secolo fa in Italia avevamo il doppio della terra coltivabile ed eravamo solo 38 milioni contro gli attuali 60. Siamo cioè passati dall’avere oltre seimila metri quadri coltivabili a testa a soli duemila. Per giunta, mentre ai primi del ‘900 il 60% circa della popolazione produceva cibo nei campi, operando in veste di contadini, oggi gli operatori professionali agricoli sono poco sopra l’1%. E questi devono dare da mangiare a tutti gli altri. E già oggi non ce la fanno.

Agli inizi degli Anni 90 l’Italia toccò il 93% dell’autosufficienza agroalimentare. Oggi siamo scesi sotto il 70%. In sostanza, abbiamo quadruplicato la dipendenza dall’estero, con buona pace di chi ostacola le tecnologie agrarie, chimica inclusa, ma poi vorrebbe mangiare solo Made in Italy. Se lo immagina con gli scenari attuali come potrebbero mai fare gli agricoltori a sfamare tutti usando solo zappe, letame e varietà antiche, spesso poco produttive e cariche di problemi, come facevano i loro bisnonni? Dovessimo abolire i pesticidi e i fertilizzanti di sintesi, come da più parti si caldeggia, le produzioni agricole precipiterebbero a picco. Anche perché, dolente ricordarlo, ma anche il Bio usa grandi quantità di pesticidi. Solo che ha stabilito arbitrariamente che quelli che usa lui sarebbero “buoni” perché “naturali”. Quelli “cattivi” li userebbero cioè solo gli “altri”, i non Bio. Niente di più maramaldo come messaggio, perché una molecola è una molecola, indipendentemente dalla sua origine.

Pensi che il rame, ampiamente usato nel biologico, è molto più tossico del tanto vituperato glifosate, l’erbicida ormai alla gogna dal 2015. Secondo le statistiche ufficiali, dati 2016, l’unico agricoltore morto per un’intossicazione durante un trattamento fitosanitario, pensi un po’, è stato ucciso dal solfato di rame. Perché la risposta alla Sua seconda domanda è sì: anche in agricoltura è sempre la dose a fare il veleno, indipendentemente dai prodotti usati. E l’esposizione umana ad essi è del tutto trascurabile rispetto ai grandi benefici che gli agrochimici portano con sé. Del resto, anche un’anestesia dal dentista ha i suoi effetti collaterali, ma sfido chiunque a chiederne l’abolizione…

In sostanza, senza quei prodotti chimici sarebbe carestia, è bene farsene una ragione. Ma carestia di quella dura. Oggi invece possiamo contare su grandi quantità di cibo, abbordabile quanto a prezzi e per giunta sicuro dal punto di vista della salute. Sarebbe infatti bene che la gente leggesse meno gli articoli di media e associazioni allarmiste e consultasse di più i dati ufficiali, sia quelli ministeriali italiani, sia quelli dell’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare). Dati che confermano anno dopo anno la sicurezza dei cibi che mangiamo. Da tempo vengono invece millantati danni catastrofici a carico della popolazione, magari rilanciando discutibili prove di laboratorio, in vitro o su cavie, cioè non esportabili agli scenari reali. Infatti, se poi si analizzano le statistiche sanitarie ufficiali non si trova alcun riscontro di tali Armageddon sanitari. Peraltro, chi non fosse persuaso di ciò, sarebbe forse utile inviarlo con la macchina del tempo nell’Irlanda di metà ‘800, quando la carestia portata dalla peronospora delle patate causò un milione di morti. Quelli sì accertati, mica millantati. Bastò un solo patogeno, su una sola coltura, e fu una strage dalle proporzioni bibliche.

Invece oggi si campa sempre di più, siamo più alti di 15 centimetri rispetto a un secolo e mezzo fa, abbiamo debellato rachitismo e pellagra. Direi che potremmo anche essere contenti. Al limite, sarebbe cosa intelligente curare meglio la propria alimentazione e i propri stili di vita, perché la cosa assurda è che la maggior parte dei nostri malanni li incentiviamo proprio noi con una vita sedentaria e abitudini poco sane da un punto di vista alimentare e comportamentale. Ma cambiare i propri stili di vita è dura, meglio quindi dare la colpa a qualche mostro di turno. Anche se poi tanto mostro quello non è.

Quindi la naturalità contrapposta ai prodotti della scienza è una percezione irrazionale?

Assolutamente sì. Fra le tossine più letali al Mondo ricadono quella del Clostridium botulinum, della Rana d’oro e del pesce palla. Migliaia o milioni di volte più letali del peggiore pesticida mai inventato dall’Uomo. Anche perché talvolta il confine fra prodotto naturale e di sintesi è davvero difficile da fissare. Dimetomorf, un antiperonosporico ampiamente usato in viticoltura e in orticoltura, è un derivato dell’acido cinnamico, cioè dalla cannella. Mesotrione, diserbante per il mais, è stato ricavato modificando la struttura di una sostanza naturale secreta da alcune piante del genere Callystemon. Queste producono tali erbicidi intorno a sé per fare piazza pulita delle piante concorrenti. Cioè esattamente quello che facciamo noi nei nostri campi coltivati per difendere il nostro cibo. Noi non abbiamo fatto altro che modificarla quel tanto che bastava affinché diventasse selettiva per il granturco, altrimenti avrebbe ucciso anche lui. E questo solo per gli agrofarmaci. Dallo Staphylococcus aureus, un batterio patogeno, è stata estratta una tossina letale per altri batteri, anche verso quelli divenuti ormai resistenti agli antibiotici. Un problema che già oggi uccide al Mondo centinaia di migliaia di persone.

Peccato che quella tossina dello Stafilococco fosse tossica anche per noi. I ricercatori sono però riusciti a modificarla strutturalmente affinché mantenesse la propria efficacia antibiotica, divenendo molto più tollerabile per il nostro organismo. In sostanza, la molecola modificata dall’Uomo è migliore di quella prodotta dalla natura.

Siamo davvero sicuri quindi che naturale sia migliore di sintetico? Forse è spesso vero il contrario, sapendo che negli Stati Uniti sono triplicati i casi, dal 7 al 20%, di persone che si sono danneggiate il fegato, anche gravemente, abusando di integratori vegetali “naturali”. Illusisi che fossero innocui, proprio perché naturali, quelle persone ne hanno abusato arrecandosi gravi danni alla salute. Il sonno della ragione genera mostri…

Una dieta sana si deve basare sui tre principi fondamentali: via pesticidi ed erbicidi, mangiare solo quello che il contadino coltiva con le sue mani, consumare prodotti a km 0. In soldoni questo viene comunicato in molte scuole anche da dietologi e nutrizionisti, in questo caso quindi non siamo di fronte ad una emotività intrisa di amarcord. Che fare?

I famosi ortaggi del contadino erano quelli con cui si prendevano Salmonella, Escherichia e toxoplasmosi, magari crepando pure per il botulino contenuto nelle conserve fatte in casa. Nel 2011 una partita di germogli di soia uccise 51 persone in Germania perché contaminata da Escherichia coli. Ed erano Bio, per somma sorpresa. Anche oggi vi sono saltuari problemi di contaminazione batterica, come nel caso dei meloni alla Listeria che di morti ne hanno provocati sei, ma la loro incidenza è divenuta minima grazie proprio ai controlli maniacali delle filiere agroalimentari legate alla grande distribuzione organizzata. Circa poi la dieta sana, questa si deve basare banalmente su un buon equilibrio di carboidrati, grassi e proteine, animali e vegetali, meglio se contornati da ricche porzioni di frutta e verdura. Non c’è nutrizionista serio che non riassuma il tutto con questi elementari concetti. Tutto il resto è marketing.

Si può avere un’alimentazione assolutamente esemplare e sanissima anche facendo la spesa solo nei supermercati, magari evitando accuratamente ogni prodotto “alternativo”. Non c’è nulla che non vada nei prodotti convenzionali di largo consumo. Sono iper controllati e contengono tutto ciò di cui abbiamo bisogno, a dispetto delle campagne di demonizzazione che subiscono. Provate a prendere un euro e mettetevi di fronte alle cassette dell’ortofrutta. Poi chiedetevi quante verdure e frutti potreste portare a casa con quell’euro comprando prodotti convenzionali oppure “alternativi”. La risposta ve la darete da soli, visti certi prezzi. E l’importante è mangiarne tanta di ortofrutta. Sempre, indipendentemente dal bollino che ci sta appiccicato sopra. Il KmZero è poi meraviglioso quando si è in vacanza in un luogo ameno, ricco di prodotti che di solito non si trovano a casa propria, ma poi per le altre 50 settimane dell’anno? Io vivo nel Cremonese: mi dice cosa trovo a KmZero nei 12 mesi dell’anno se non mais, soia, orzo ed erba medica? Certo, carne e latticini li avrei sotto casa, ma gli agrumi? Le pesche? Il riso? Le mele? Zero. Mi verrebbe lo scorbuto in tre mesi.

Piaccia o meno, il nostro spostamento demografico nelle città ha innescato logiche di filiera agroalimentare basate sul trasporto delle merci dai luoghi di produzione a quelli di consumo. Non è bello, certo, ma al contempo è inevitabile. E tornare indietro non si può, checché se ne dica, a meno di una catastrofe globale che riducesse del 90% la popolazione e ci riportasse ai tempi degli antichi Romani, col bue e l’aratro calcato a mano. Uno scenario che di romantico e bucolico direi che ha davvero poco e che risulterebbe invivibile per la maggior parte dei detrattori dell’attuale agricoltura.

Glifosate e viticoltura è un matrimonio destinato a finire. Quali saranno le conseguenze immediate?

Dal 2015 glifosate è divenuto il parafulmine sul quale scaricare tutto l’astio verso l’agrochimica.

È l’agrofarmaco più utilizzato al Mondo, in più lo ha inventato Monsanto, la multinazionale più odiata in assoluto, anche per aver messo a punto gli Ogm resistenti appunto a glifosate. Insomma, la tempesta perfetta per gli haters di chimica, ogm e multinazionali. La sua caduta in disgrazia, però, è coincisa con la monografia 112 della Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, la quale ha posto glifosate nel Gruppo 2A, quello dei “probabili cancerogeni per l’uomo”. L’ondata dei media ha fatto il resto. A poco è servito che la stessa Oms, di cui Iarc è una costola, abbia smentito l’Agenzia. Né è servito che ogni autorità di regolamentazione operante al Mondo abbia ribadito la non pericolosità per l’uomo, dal Canada all’Australia, dagli Usa alla Nuova Zelanda, dall’Europa al Giappone: glifosate non è un probabile cancerogeno per l’Uomo, sarà bene accettarlo. Ma ormai la gogna inquisitoria era partita e nulla è valso a fermarla. Una gogna che non si è fermata nemmeno quando sono emerse le inaccettabili relazioni economiche del Presidente di quel gruppo di lavoro, Christopher Portier, con gli studi legali che stavano preparando la lucrosa class action contro Monsanto. Né pare abbia disturbato il fatto che Aaron Blair, coordinatore scientifico di quel gruppo, abbia tenuto nei propri cassetti lo studio epidemiologico più robusto mai fatto su glifosate che dimostrava la sua non cancerogenicità.

Un insabbiamento che visto alla rovescia avrebbe fatto sicuramente urlare allo scandalo, se quella ricerca avesse dimostrato la cancerogenicità dell’erbicida e fosse stato tenuto “misteriosamente” inaccessibile. Perfino il Comitato scientifico del Congresso americano ha chiesto lumi alla Iarc su una decina di strani e inspiegabili cambiamenti dell’ultimo secondo apportati alla monografia 112, girando in negativo dei giudizi preliminari dal neutro al positivo. Modifiche cui Iarc si è sempre rifiutata di dare giustificazione, mostrando in tal modo anche una notevole arroganza. Perché l’indipendenza procedurale è nulla senza la necessaria trasparenza. Insomma, una serie di situazioni del tutto sufficienti a far ritirare quella monografia e rifarla da capo. Magari senza prezzolati consulenti di studi legali fra i presenti. Ormai però l’erbicida è preso di mira un po’ ovunque, venendo bandito ora da questo Comune, ora da quell’altro. Come se l’abolizione di glifosate dalle vigne le potesse trasformare in un rinnovato Eden incontaminato.

In viticoltura, mediamente, su cento chilogrammi di agrofarmaci di glifosate se ne adopera uno. Uno! Altri 69 chilogrammi sono in base zolfo, 11 sono rameici e altri 19 sono prodotti vari di sintesi. In sostanza, anche un viticoltore convenzionale usa per l’80% dei prodotti ammessi in biologico. Togliere quel chilo su cento di glifosate appare quindi scelta meramente demagogica, priva di alcun significato tecnico, ambientale e sanitario. Peraltro, proibire glifosate sulle colline obbligherà a reiterati passaggi con macchine sotto i filari. Tanta terra che verrà quindi smossa, anziché restare compatta, a tutto favore di eventuali erosioni dovute alle piogge. E tanto, tantissimo gasolio in più consumato. E un chilo di gasolio diventa circa tre chilogrammi di anidride carbonica immessa nell’atmosfera. Siamo sicuri che dal punto di vista ambientale sia un vantaggio?

Peraltro, la gente non sa che glifosate continua a restare alla base dei diserbi di grandi arterie stradali e ferrovie. Anche proibendolo nei vigneti, le acque del trevigiano continueranno a mostrare tracce di glifosate comunque. E pure di Ampa, suo metabolita. Peccato che nessuno dica che esso deriva anche da diversi detersivi impiegati nelle case. Un’informazione che, come al solito, è stata fatta circolare dal poco al nulla. Sa che per dare da mangiare a un Italiano per un anno tutti gli agricoltori messi insieme, da Bressanone a Ragusa, applicano alle proprie colture un solo chilo di sostanze attive? Un chilo a testa di agrofarmaci, per mangiare un anno.

Ho fatto qualche conto in casa mia e fra detersivi, prodotti per l’igiene della casa e della persona usiamo oltre 60 litri di prodotti. E siamo in tre. Venti litri a testa, per tenere pulita la nostra vita, per sgorgare i lavandini, per igienizzare water e pavimenti, per lavare i piatti, i nostri vestiti e le nostre persone. E in tre consumiamo circa tre tonnellate di carburanti all’anno con le nostre autovetture. Capite bene che se davvero la popolazione tenesse all’ambiente e alla salute, più che attaccare gli agricoltori qualche domanda dovrebbe forse iniziare a porla a se stessa…

Il rapporto tra l’agricoltura e la biodiversità è un sistema complesso. Quanto vale l’equazione BIO=maggiore biodiversità?

Onestamente? Zero. L’agricoltura è la prima forma di impatto sulla biodiversità operata dall’Uomo. Nel momento stesso che convertiamo in terra coltivabile un ettaro di foresta o di prateria, la biodiversità di quel terreno precipita fino quasi ad annullarsi, indipendentemente da ciò che vi coltiverò dopo, soia ogm o peperoni bio. In più, il 40% delle emissioni di gas serra addossate all’agricoltura derivano proprio dai processi di conversione ad agricoli di terreni selvatici. Il biologico ha rese inferiori a quelle convenzionali e quindi a parità di cibo prodotto obbligherebbe a maggiori disboscamenti e conversioni di praterie, cioè il peggio che possa accadere al Pianeta, ma si è accaparrato furbescamente questa immagine di agricoltura salvifica quando in realtà le pratiche virtuose da seguire sono molteplici e non sono esclusiva di alcuno.

Pensi alla semina su sodo dei cereali. Invece di arare, erpicare e poi seminare, si semina direttamente sul terreno intatto. In studi trentennali svolti dall’Università delle Marche si è visto un aumento drastico della sostanza organica e delle popolazioni di lombrichi nel terreno. Inoltre, sono stati più che dimezzati i consumi di gasolio ed è stata contrastata in modo eccellente l’erosione dei suoli. Peccato che per eseguire tali pratiche serva prima un diserbo con… indovini? Glifosate. Perché altrimenti la seminatrice non riesce ad avanzare in un campo pieno di erbacce.

In sostanza, sono le tecnologie nel loro complesso da finanziare, non solo quelle di specifiche attività agricole. Per aumentare la biodiversità si può peraltro agire realizzando corridoi biologici lungo i territori, come fatto per esempio in Trentino. Dove per biologici non si intende ovviamente “da agricoltura bio”, bensì corridoi che siano funzionali al passaggio di fauna selvatica da un’area all’altra favorendone il ripopolamento e gli equilibri naturali. Oppure gioverebbe trasformare in aree rifugio alcune porzioni di terreno, non necessariamente agricolo, in modo che fra le varie essenze spontanee possano trovare rifugio e moltiplicarsi innumerevoli animali, api comprese.

La biodiversità è infatti faccenda territoriale, non solo agricola. Ci rendiamo conto che a dare addosso all’agricoltura è spesso il cittadino che ha appena impermeabilizzato col cemento una bella fetta di suolo, costruendovi sopra la propria villetta immersa nel verde? Treviso, per esempio, è una delle provincie italiane a maggior vocazione edilizia. Case su case. Strade su strade. Capannoni su capannoni. E il territorio, il paesaggio e la biodiversità la si difenderebbe obbligando al bio i viticoltori? Ma non scherziamo, suvvia. Se continueranno su questa strada presto al posto di villette immerse nel verde ci si troverà con un po’ di verde immerso fra le villette. Però senza glifosate… Una commedia dell’assurdo.

Grazie Donatello