Pietro GRECO*: La comunicazione della scienza in Italia

*Giornalista scientifico e scrittore
*Già direttore del master in Comunicazione scientifica della SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) di Trieste
*Caporedattore del magazine online Il Bo Live, di proprietà dell’Università degli Studi di Padova.

Da un’esperienza più che trentennale di giornalismo e di comunicazione scientifica (ricordo anche l’importante lavoro che ha svolto al Ministero dell’Università e della Ricerca) come giudica la costante avversione e sospetto che la scienza suscita in Italia?

Da questa mia lunga esperienza nel giornalismo e nella comunicazione della scienza ho rilevato che c’è davvero una reale avversione e un sospetto costanti provenienti da una parte della società italiana.

Molti sostengono che questo atteggiamento nei confronti della scienza sia un residuo della cultura crociana; Benedetto Croce non riconosceva il valore culturale della scienza e da questo deriverebbe l’attuale disvalore della cultura scientifica che tutti noi oggi respiriamo. In realtà questo approccio crociano alla scienza è rimasto egemone in alcune parti importanti della società italiana, ma sono convinto che la causa reale abbia origini un po’ più materiali.

I paesi che sono entrati, o che cercano di entrare, a vele spiegate nell’economia della conoscenza, hanno fondato tutto il loro sistema produttivo su una costante innovazione dipendente dalla ricerca scientifica e tecnologica (che come sappiamo dipende dalla produzione di nuove conoscenze scientifiche). In Italia, tutto questo processo economico non è avvenuto, e oggi ne paghiamo le conseguenze perché di fronte alla nuova globalizzazione il nostro paese ha mostrato tutta la sua arretratezza, e da qui, le nostre difficoltà economiche.

La scarsa cultura scientifica quindi ha determinato una specializzazione produttiva del sistema paese che ha tralasciato la ricerca, e quindi la scienza, e ciò ha comportato uno scollamento sempre maggiore tra il nostro sistema produttivo e il valore della cultura scientifica non solo sociale, ma soprattutto economico.

La scienza ha bisogno di cultura scientifica e questa esiste quando un paese mette in atto tutti gli sforzi possibili per costruire una società democratica della conoscenza. Qual è stato l’effettivo impegno della politica italiana a riguardo?

La politica in Italia non ha fatto molto: né i partiti di centrodestra né quelli di centrosinistra. Purtroppo la sottostima del valore culturale, sociale ed economico della scienza appartiene un po’ a tutto il panorama politico del nostro paese.

Ovviamente esiste, anche in Italia, una parte non banale di politici che hanno avuto attenzione per la scienza, ma è sempre stata una parte minoritaria e purtroppo poco incisiva.

Questo ci riporta alla causa cui ho accennato prima, e cioè la causa della scarsa attenzione della nostra classe politica verso la scienza è stata determinata dalla specializzazione produttiva del sistema paese fondata su un “modello di sviluppo senza ricerca” e quindi senza il protagonismo della scienza.

In Germania, per esempio, questo non sarebbe possibile. Se in Germania i politici fossero disattenti di fronte alla cultura scientifica, l’intero sistema produttivo tedesco imporrebbe loro di prestare molta più attenzione alla scienza e alla ricerca scientifica. Non è un caso che tutta la politica in Germania abbia una forte attenzione verso la scienza, lo si vede anche nel programma di un partito di centro come il partito socialdemocratico, e adesso anche in quello dei verdi che dimostrano un’attenzione alla ricerca scientifica molto importante

La globalizzazione ha come principale referente il libero mercato e una parte importante dell’economia si basa sulla conoscenza scientifica, quindi con la cultura non solo si mangia, ma si cresce. Da cosa dipende, quindi, l’impermeabilità italiana nell’applicazione del diritto alla conoscenza?

Ancora una volta credo che questo dipenda dal modello di sviluppo economico e produttivo del nostro paese. Il diritto alla conoscenza non viene percepito come un valore sociale ed economico. Abbiamo scelto uno sviluppo che non prevede la ricerca scientifica. E queste sono le conseguenze.

Da qui l’impermeabilità italiana al diritto alla conoscenza che rappresenta il risultato di una scarsa attenzione economica, quindi culturale e sociale alla conoscenza scientifica, in particolare, ma anche verso conoscenza in generale. Peraltro, non è che la cultura umanistica di stampo crociano si imponga sulla cultura scientifica; quello che stiamo vivendo è una scarsa attenzione verso l’intera cultura, e questo il paese lo sta pagando a caro prezzo

Noi sappiamo che la biodiversità è uno dei motori dell’evoluzione e in questo momento, in molte società, la biodiversità è anche un valore. E così logica vorrebbe che la biologia della conservazione (branca della biologia che studia scientificamente i fenomeni che influiscono sulla perdita, sul mantenimento e sul ripristino della biodiversità) diventasse la base di scelte gestionali, ma questo, molto spesso, non accade. Forse perché, di là da una risposta empatica molto forte, si ha un’idea molto scarsa su cosa sia veramente la biodiversità?

Credo che questo sia l’effetto della scarsa cultura in generale, e della cultura scientifica in particolare, che si riflette in una insufficiente comprensione di sistemi biologici complessi quali la biodiversità, del significato stesso del termine biodiversità, e del modo in cui si può e si deve salvaguardare la biodiversità.

Da qui derivano i nostri rapporti con il resto del mondo vivente e dell’ambiente in generale che sono formati più dalla ideologia che non dalla comprensione profonda di cosa siano e di cosa significhino.

Negli ultimi 10-15 anni la divulgazione scientifica italiana è cresciuta, ma la biologia della conservazione continua ad essere sconosciuta anche a molti giornalisti scientifici.  La biodiversità quindi cenerentola della divulgazione scientifica?

Penso che negli ultimi dieci o quindici anni la comunicazione della scienza, più che la divulgazione scientifica, sia aumentata in termini sia quantitativi che qualitativi in molti settori. Le trasmissioni di Piero Angela raggiungono alti audience e, in Italia c’è un gran numero di Festival della Scienza come in nessun altro paese europeo e forse al mondo.

Non è un caso neppure che ci siano tanti i luoghi di formazione di comunicatore scientifico come la Sissa di Trieste, ma anche Milano, Ferrara, Roma, Bari, Torino e Padova sono diventati luoghi importanti di formazione.

Devo dire che ci sono ormai alcune centinaia, se non qualche migliaio, di persone che in questi 10-15 anni si sono formati e sono diventati ottimi comunicatori scientifici, alcuni sono di eccezionale bravura e non hanno nulla da invidiare ai nostri colleghi di altri di altri paesi.

Se c’è una mancanza di attenzione per la biologia della conservazione è perché anche noi giornalisti viviamo in un ambiente nel quale l’analisi razionale dei fenomeni lascia il passo molto spesso alla ideologia e quindi, molto spesso, anche i media si lasciano prendere facilmente dalla ideologia e dalla emotività piuttosto che dalla razionalità.

Penso però che la razionalità non debba essere disgiunta della emotività; posso e debbo tentare di conservare la biodiversità nel nostro paese e nel mondo agendo sia razionalmente che emotivamente, ma l’emozione non deve mai prevalere e soppiantare la ragione, quindi la nostra azione non deve essere mai ideologica, ma sempre attenta al contesto.

Dobbiamo sempre fare un’analisi del contesto, questo ce lo insegna proprio la scienza; non esistono valori assoluti o decisioni assolute, ma esistono valori e decisioni che vanno prese tenendo conto del contesto. Questo è il significato della cultura scientifica, e quando continuerà ad affermarsi e a diventare prevalente anche nei media, allora anche la cultura della biodiversità diventerà importante.

Grazie Pietro

 

 

Roberto DELLA SETA*: ruolo dell’ambientalismo nella biologia della conservazione

*Già Presidente di Legambiente e dal 2008 al 2013
  È stato senatore del Pd e capogruppo nella Commissione Ambiente nella XVI Legislatura
  Attualmente presiede la Fondazione Europa Ecologia

 

I recenti risultati delle elezioni europee ci hanno descritto una vera e propria “ondata verde” in quasi tutto il continente a parte l’Italia dove, in assoluta controtendenza, Europa Verde riesce ad ottenere un consenso del 2.4%. L’Europa della solidarietà e un impegno concreto contro la crisi climatica sono stati metabolizzati da molti europei, ma non dagli italiani. Se e cosa non ha funzionato?
In effetti le elezioni europee del 26 maggio hanno visto quasi tutta l’Europa investita da una grande onda verde che ha risparmiato quasi soltanto l’Italia. Ci sono paesi come la Germania e la Francia dove ormai i verdi sono la forza progressista più importante; in Germania (gli ultimi sondaggi li danno addirittura come primo partito), ce ne sono altri, come il Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio, Austria e molti paesi scandinavi, dove i verdi hanno ottenuto risultati a doppia cifra sopra, ma anche l’Europa mediterranea con la Spagna e il Portogallo ha eletto europarlamentari verdi.

Le ragioni che vedono l’Italia esclusa dal grandissimo successo dei verdi in Europa sono diverse, ma credo che la principale dipenda dalla inadeguatezza dell’offerta politica ecologista nel nostro paese. I verdi italiani sono ancora quello che erano sostanzialmente 20 o 30 anni fa, un piccolo partito nato dal seno della sinistra radicale.

In tutta Europa i verdi hanno cambiato profilo diventando una forza protagonista di un grande proposta di riformismo green, senza mai rinunciare a nulla dei propri valori direi quasi rivoluzionari, è stata in grado di misurarsi, spesso anche con successo, con la complessità contemporanea delle azioni di governo. Basti pensare  che i verdi governano da tempo e con successo una delle regioni tedesche più ricche industrializzate come il Baden-Württemberg. Questo cambio di passo in Italia non c’è stato e credo che questo sia questa sia la radice dell’insuccesso, del flop ennesimo dei Verdi italiani dei verdi in Italia, naturalmente questo insuccesso è anche la misura di una difficoltà di tutta la politica italiana a fare i conti con la sfida ambientale.

L’inadeguatezza dei verdi italiani si accompagna a quelle delle altre forze politiche tradizionali del nostro paese che sono palesemente più indietro che nel resto d’Europa rispetto ai temi ambientali. I socialisti europei spesso ormai hanno integrato fortemente i temi ambientali nei loro programmi, penso al Regno Unito e alla Spagna, esempi di due grandi paesi europei dove socialisti non solo resistono, ma avanzano.

In Italia, il Partito Democratico, che è il partito del che rappresenta il nostro paese nel Partito Socialista europeo nel gruppo socialista al Parlamento Europeo, rimane ancora molto lontano da questa consapevolezza, così come le altre forze politiche. Un altro esempio è il centro-destra europeo è quello che ha il volto di Angela Merkel che è molto molto più ambientalista di qualunque esponente del partito democratico italiana. Quindi, come vedi, il fallimento della proposta verde in Italia non credo ci sia un problema di arretratezza dell’elettorato italiano rispetto ai temi ambientali.

Gli italiani hanno dimostrato In tante occasioni di essere molto consapevoli e molto sensibili ai temi dell’ambiente; basti ricordare il trionfo del referendum contro il nucleare prima dell’87 e, pochi anni fa, quello per l’acqua pubblica; quella che è mancata è la capacità delle forze politiche di tradurre questa sensibilità di base in offerta politica.

L’elettorato italiano ha tentato altre strade; penso che il grande successo del M5S delle scorse elezioni politiche nasca anche dal fatto che 5 Stelle si fossero caratterizzati fortemente sui temi ambientali, oggi questa strada l’hanno quasi del tutto abbandonata.

Non so come si possa ripartire, ma sicuramente lo si dovrà fare dalle fondamenta;  bisogna prendere atto del fallimento del progetto che ha il nome e il volto dei verdi italiani per avviare una nuova offerta ecologista caratterizzata da una visione e una proposta radicali, ma allo stesso tempo deve essere caratterizzata dalla capacità pragmatica di misurarsi con tutti i temi del governo di una società complessa come la nostra

Penso che oggi difendere l’ambiente non vuol dire più come voleva dire 20 o 30 anni fa resistere alle leggi dell’economia e alle leggi del profitto, ma vuol dire essere in grado  di applicare i principi e i protocolli del Green New Deal che, in Italia e in Europa significa lavorare per la riconversione ecologica delle produzioni e dei consumi. Questa è la strada per ridurre il rischio di una marginalizzazione dell’Europa che sta per diventare sempre di più un’area periferica nello scacchiere globale geopolitico. Siamo in pochi rispetto agli altri continenti e l’unico modo per mantenere un peso importante è quello di continuare ad essere leader nei  processi di riconversione ecologica dell’economia. Non so se questa possibilità in Italia qualcuno saprà raccoglierla Ma io penso che davvero non ci siano alternative.

Come giudichi gli sforzi della politiche ambientaliste nel decennio che l’IUCN ha dedicato alla Biodiversità (2010-2020)?
In Italia il bilancio che si può fare a oggi delle politiche legate al tema della biodiversità non è un bilancio entusiasmante perché nel nostro paese non è entusiasmante il bilancio delle politiche ambientali.

E’ ormai da una decina d’anni in cui le politiche ambientali rappresentano la cenerentola nelle preoccupazioni di chi governa a cominciare dalla scelta di destinazione delle risorse pubbliche. I Parchi Nazionali, e non solo vedono, ridursi anno dopo anno i trasferimenti di risorse dallo stato; oggi possono contare su fondi su stanziamenti che sono molto più bassi per ettaro di quelli su cui può contare la protezione della natura nelle aree protette nel resto d’Europa.

Naturalmente tutelare la biodiversità non passa soltanto attraverso le attività nelle aree a diverso regime di protezione, ma certamente quello è un elemento decisivo,                                         e rappresenta una cartina da tornasole della priorità rappresentata dalle politiche di difesa della biodiversità.

In questi anni, in particolare in Italia, non c’è stato neanche uno sforzo leggero e appena sufficiente per affrontare una delle grandi minaccia per la biodiversità rappresentata dalla crisi dei cambiamenti climatici, che non è più un pericolo proiettato nel futuro, ma è una realtà già oggi molto incisiva; basta misurare i processi di inaridimento del suolo, in particolare nel sud d’Italia e come questo si traduce nel rischio di estinzione di specie animali e vegetali che cambia il volto del nostro territorio.

In questo bilancio, io stesso ho qualche responsabilità così come una parte del mondo ambientalista che non sempre ha saputo compiere quel cambio di passo rispetto al passato. Penso ancora una volta che le politiche ambientali non debbano soltanto resistere alle minacce che pesano sulla biodiversità, dobbiamo capire che tutelare la biodiversità è anche una grande occasione, per esempio, di sviluppo locale.

Spesso i parchi italiani non sono messi nelle condizioni di valorizzare queste opportunità Qualche volta anche perché ci sono associazioni ambientaliste che continuano a privilegiare un’idea di parco, di un’area protetta, di protezione della biodiversità semplicemente come un insieme di divieti, di vincoli, di proibizioni. E questa, credo, che sia una strada che prima o poi bisognerà superare

La biologia della conservazione (branca della biologia che studia scientificamente i fenomeni che influiscono sulla perdita, sul mantenimento e sul ripristino della biodiversità) ha bisogno di scelte politiche che si basino su assiomi scientifici. Come influisce la scienza sulle politiche ambientaliste messe in atto che hanno come oggetto la biodiversità in Italia?
La scienza in Italia non gode di grande popolarità, di grande fortuna, questo avviene in tutti i campi. Naturalmente viene alla mente questioni come quella legata ai vaccini. L’Italia è attraversata, storicamente, da un fiume sotterraneo di diffidenza verso la scienza, che investe anche, in parte, l’azione e il profilo di chi si batte in difesa della natura.

Esiste un ambientalismo antiscientifico, è inutile nasconderlo. Io credo che sia minoritario, anche perché le principali associazioni ambientaliste dal WWF a Legambiente, hanno certamente uno sguardo sulla scienza completamente, ma questo tema esiste.

Credo altrettanto importante, e pesante, sia il fatto che le nostre classi dirigenti sempre di meno sono selezionate sulla base della competenza tecnica scientifica, e in generale culturale.

Oggi questo decadimento della competenza, forse ha raggiunto i suoi livelli massimi. Viviamo in un epoca in cui l’incompetenza è considerata quasi una virtù per chi fa politica o per chi assume ruoli dirigenziali. Oggi l’incompetente in qualche modo è un homo novus, non viene dall’establishment. Ecco, questa condanna della competenza credo che sul nostro paese abbia avuto, e stia avendo, delle conseguenze estremamente dannose che dureranno molto a lungo.

Questo è evidente anche nelle politiche ambientaliste; uno sguardo alle biografie, al curriculum di molti degli ultimi ministri dell’ambiente, o di molte assessori regionali all’ambiente, rende bene l’idea.

Ancora oggi persiste l’equivoco che le aree protette siano l’obiettivo della conservazione e non lo strumento per la sua attuazione, così la maggior parte sono sprovviste di strumenti propedeutici alla loro funzione come i Piani di Gestione e dei loro organi costituenti chiave come quello di Direttore e di Presidente e sono diventate spesso traino di folklore locale. Come pensi dovrebbe essere risolto l’attuale vulnus conservativo italiano?
Sono d’accordo che le aree protette non sono l’obiettivo della conservazione ma ne rappresentano lo strumento. Come sappiamo le aree protette rappresentano la strategia  più importanti per un efficace conservazione della natura e, in Italia, credo soffrano anche di molti limiti.

Quando ero in Parlamento ho provato a proporre e a far approvare un disegno di legge che riguardava proprio alcune modifiche della legge quadro sulle aree protette, che è stata un’ottima legge che ha consentito di ricondurre a forma di protezione più del 10% del territorio nazionale, ma che oggi ha bisogno di essere in qualche sua parte rinnovata.

Per esempio penso che i criteri di nomina dei Presidenti dei Parchi nazionali, che oggi prevedono un’intesa tra il Ministero dell’ambiente e le Regione interessate dal perimetro del Parco; quando manca questo accordo, ci troviamo nella situazione attuale in cui un gran numero di Parchi italiani sono senza Presidente, sono commissariati, e un parco commissariato è un parco che non può funzionare.

Parallelamente  esiste un problema di risorse economiche e finanziarie per i parchi italiani, ma c’è anche un problema di governance inefficace. Come ti ho anticipato viviamo una crisi di grandi incompetenze, così come Presidenti spesso privilegiano figure che non hanno alcun legame con la storia di quel parco, in generale, ma soprattutto con le necessità di una efficace opera di conservazione della natura che è il motivo fondamentale di istituzione di un Parco.

Penso che il processo di manutenzione della L.N.394/91 che preveda il mantenimento di molti aspetti che rimangono attuali, ma che corregga una serie di errori, potrebbe riuscire a mettere in condizioni i Parchi di una governance sicura e a non dover attraversare anni e anni di commissariamento, per poi ottenere strumenti effettivi per coniugare la conservazione della biodiversità a progetti efficaci di sviluppo locale.

Mai come ora le associazioni ambientaliste hanno un ruolo rilevante nella politica italiana, per fare un esempio penso al loro funzione dirimente nei diversi tentativi di approvazione e di attuazione dei vari Piani Lupo che si sono succeduti durante il presente ed i recenti governi. Che ne pensi delle ricadute pratiche di tale protagonismo?
Non so se oggi le associazioni ambientaliste abbiano un ruolo così rilevante nella politica ambientale italiana. Di sicuro hanno un ruolo fondamentale, decisivo e crescente nell’orientare l’opinione pubblica, ma oggi le associazioni ambientaliste (dotate di forti capacità e di conoscenze a disposizione di chi deve prendere decisioni) trovano difficoltà forse crescenti nel dare un contributo utile a queste politiche ambientali che sono totalmente slegate da qualsiasi criterio di competenza.

Per quanto riguarda la politica direttamente legata alle scelte legate alla biologia della conservazione, credo che le associazioni ambientaliste dovrebbero trovare una via comune, cosa che finora non è successa.

Penso, per esempio, al tema del controllo faunistico, materia, da sempre, oggetto di grandi discussioni e di grandi polemiche. Non c’è dubbio che in Italia esista un problema di danni causati da alcune specie di fauna selvatica, ma non c’è dubbio nemmeno che spesso, il tema del controllo viene utilizzato come pretesto per aprire l’attività venatoria anche in aree a diverso regime di protezione, alimentando la “confusione” che esiste tra controllo faunistico e ordinaria attività venatoria.

Come sai bene, come “gruppo dei 30” ci siamo opposti alla modifica della 394/91 (Legge Quadro sulle Aree Protette) così come proposta, e le tue risposte mi hanno solleticato ancora altre domande e confronti più pertinenti sul significato e ruolo della governance delle aree protette.
Grazie Roberto e a presto

FARE SCIENZA IN MODO PARTECIPATO: PRINCIPI E POTENZIALITÀ DELLA CITIZEN SCIENCE

di Andrea SFORZI

direzione@museonaturalemaremma.it
Direttore del Museo di Storia Naturale della Maremma
Membro del Board of Directors della European Citizen Science Association (ECSA)

Introduzione
La coscienza popolare verso le questioni ambientali è in crescita, così come il livello di conoscenza e la disponibilità a forme di collaborazione trasversale da parte dei cittadini. Negli ultimi decenni, in risposta a questa richiesta, si è diffusa, dapprima in USA poi in Australia e in Europa, la Citizen Science (CS). Questo concetto, che potrebbe essere tradotto nella nostra lingua come “scienza dei cittadini” o “scienza partecipata”, si riferisce al coinvolgimento e la partecipazione attiva e consapevole di persone di varie età, formazione ed estrazione sociale, in attività di ricerca scientifica. Il processo di “democratizzazione della scienza”, avviato da qualche decennio, ha interessato nel tempo un numero sempre più ampio di discipline e di persone, divenendo un fenomeno di rilievo da molti punti di vista, con alcune conseguenze importanti, come la crescente capacità di raccogliere ed elaborare dati che possano contribuire ad orientare scelte politiche.

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Antibracconaggio: una sfida internazionale

di Marina BIZZOTTO

Maggiore Carabinieri Forestali
Addetta presso il Coespu alla Cattedra di Polizia per la Tutela Ambientale, Forestale e Agroalimentare

 

Cosa hanno in comune un Carabiniere Forestale che se ne sta acquattato tra i cespugli sul far del giorno, nelle valli bresciane ed un ranger del parco del Virunga, in Rwanda, che si carica sulle spalle il cucciolo di gorilla rimasto orfano della madre, uccisa dai bracconieri?

Forme diverse di intervenire, panorami diversi a caratterizzare il contesto ma unica rimane la risoluzione e la determinazione di chi opera, a salvaguardia della fauna selvatica, nell’antibracconaggio.

Grazie ad accordi multilaterali, da qualche tempo, queste diverse realtà sono state messe in contatto per avvantaggiarsi, le une delle altre, e condividere esperienze e metodologie.

Non stupisce quindi che si sia attivata una fattiva collaborazione tra gli esperti italiani e diversi stati africani che hanno chiesto di poter avvantaggiarsi di una formazione dedicata per contrastare il fenomeno.

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Paolo CAVALLINI* : da aprile 2018 Presidente di QGIS.ORG

*Fondatore Faunalia
*Presidente QGIS.org
* https://www.osgeo.org/member/paolo-cavallini/

Penso di non andare molto lontano se provo a immaginare la tua mappa mentale come una rappresentazione del pensiero in cui ci sono due componenti principali: una solita e rigorosa base naturalistica e un altrettanto rilevante componente informatica. Quali delle due sono state determinanti, se lo sono state, per la gestione dei conflitti che hai incontrato fino ad ora nel tuo lavoro?
Sicuramente la comprensione dell’etologia mi ha aiutato più di quanto non faccia l’informatica. Trovo che la forma mentale richiesta dall’informatica tenda spesso a ridurre i problemi a schemi trattabili da un punto di vista computazionale, con un approccio che gli umani trovano spesso troppo duro.

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Luigi BOITANI*: Status della biologia della conservazione in Italia

*Dipartmento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin, Università La Sapienza, Roma
*Chair LCIE Specialist Group
*CEO Fondazione Segré, Ginevra

 

Da più di 40 anni ti occupi di mettere in pratica la tutela della biodiversità nel nostro paese e nel resto del mondo. Siamo alla fine del decennio della biodiversità (2011-2020). Quali sono i maggiori obiettivi che sono stati raggiunti globalmente?

Gli obiettivi della conservazione sono necessariamente utopistici e, per definizione, destinati a restare irraggiungibili. Ad esempio, l’obiettivo “zero-extinction” è impossibile in un contesto di continua crescita demografica umana. Ma la conservazione ha raggiunto molti piccoli obiettivi locali: ad esempio un aumento notevole delle aree protette a scala mondiale. Molte specie in pericolo salvate dall’estinzione sicura e molti trend negativi rallentati e talvolta fermati.

E in Italia?
Anche in Italia abbiamo i nostri successi. L’orso del Trentino, ad esempio, può ben essere citato come fiore all’occhiello. La stessa espansione del lupo, di tante specie di ungulati sull’Appennino. La rete di aree protette Natura 2000 e di riserve e parchi regionali. Certo, non tutto è funzionante a dovere e penso alla drammatica perdita di habitat costieri, ma se paragoniamo lo stato attuale a quello di 50 anni fa, nel complesso siamo in condizioni migliori


Pensi che nel nostro paese servano leggi più mirate alla conservazione e alla gestione o pensi che quelle esistenti siano sufficienti per una attività significativa?
Penso che non servano nuove leggi, basterebbe applicare quelle esistenti e dare credibilità all’azione di controllo e repressione dell’illegalità


Cosa pensi dell’assetto strutturale ed organizzativo dei diversi Enti che a vario titolo si occupano di conservazione e di gestione? E del grado di formazione che hai riscontrato?
In una Italia che viaggia ad una moltitudine di velocità diverse tra Regioni, Stato, Province, anche la conservazione della natura ha i suoi picchi di eccellenza e di disastro. Le competenze tecniche non sono male, e in molti casi sono ottime, ma quelle politiche sono pessime. La incompetenza, superficialità e ignavia della classe politica è drammatica a tutti i livelli: le eccezioni ci sono ma restano, appunto eccezioni. La struttura organizzativa, poi, è lontanissima dalla semplice efficienza: competenze sovrapposte e conflitti o vuoti di potere sono la norma.


Quali sono dei buoni esempi di gestione adattativa in cui tu hai lavorato?
Alcuni Parchi nazionali hanno una gestione sana ed efficiente in grado di accompagnare, in maniera adattativa, la dinamica ecologica e sociale ma, senza nominarli, sono troppo pochi. La gestione venatoria va citata come esempio di contrario della gestione adattativa: ogni anno si ripetono rituali di processi decisionali sui calendari venatori che non tengono minimamente conto delle realtà biologiche ed ecologiche sui quali incidono. Ma anche molte organizzazioni ambientaliste peccano di rigidità e non sanno cambiare logiche rispetto a condizioni ambientali che sono molto diverse da quando è iniziata la conservazione in Italia.


Complessivamente le aree protette, in Italia, hanno raggiunto gli obiettivi con i quali sono stati istituite?
Abbiamo raggiunto una notevole percentuale di territorio protetto, e questo è un ottimo obiettivo, ma la realtà è che la rete non copre in maniera ottimale la diversità di condizioni ecologiche del nostro Paese. Ad esempio, proteggiamo tanti pizzi di montagne e poche coste. Inoltre, tante aree protette si occupano troppo di organizzare feste e fiere dei cibi locali (tanto per fare un esempio) e poco di gestire l’evolversi degli ecosistemi naturali che proteggono


Qual è oggi, in Italia, il ruolo delle aree a diverso regime di protezione?
Ogni area protetta è articolata in sotto-aree destinate a diversi usi, questa è sana gestione ed è bene che sia così. Resta da vedere come obiettivi e strumenti di ogni sotto-area siano funzionali al disegno complessivo dell’area protetta.


Uno degli scopi con i quali sono state istituite le aree protette è quello di essere dei laboratori a cielo aperto in cui sperimentare tattiche e strategie conservative. Come e dove ci siamo riusciti?
I
n questo credo che abbiamo fallito quasi del tutto. Non conosco (e spero di sbagliarmi) esempi di attività virtuose sperimentate in un’area protetta che siano state riprese e applicate in aree esterne.


Rete Natura 2000 ha quasi 30 anni e la sua costruzione si basa prevalentemente sulla componente vegetale, ciò ha sempre comportato dei grossi gap conservativi e gestionali. A quando una Rete Natura che consideri anche il patrimonio zoologico?
Ormai si è perso il treno per questo obiettivo. La Rete Natura 2000 è stata fatta con un occhio da botanico o, al massimo da entomologo: risponde quindi a necessità di piccoli spazi dove in effetti animali o piante a bassa o nulla mobilità possono essere protetti. Ma la Rete è quasi inutile per i vertebrati di medie e grandi dimensioni che hanno ambiti territoriali molto più vasti. Ma forse è un bene così perché la natura non può essere parcellizzata in piccole aree e io sono un fervente sostenitore della necessità di trovare forme di coesistenza, non di separazione tra uomo e natura selvatica.


Oltre confine, come giudicano le nostre politiche conservative?
Non lo so. Ma ho sempre notato che le aree che hanno maggiore successo con gli stranieri sono quelle che offrono bei paesaggi, magari senza tante specie importanti ma solo belli da vedere. Il Parco delle Cinque Terre ne è l’esempio migliore. Anche il paesaggio è biodiversità, certo, ma a me sembra una visione un po’ riduttiva della natura.

I SOLITI SOSPETTI… OPPURE NO?

di Alessia MARIACHER1 Rosario FICO1,2

alessia.mariacher@izslt.it
rosario.fico@izslt.it
1Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana, sezione di Grosseto
Viale Europa, 30 58100 Grosseto
2Responsabile Centro di Referenza Nazionale per la Medicina Forense Veterinaria

 

“Cane sbranato dai lupi!”, così hanno titolato molti giornali negli ultimi anni, dando eco a una diffusa preoccupazione dei proprietari di cani che vivono in zone recentemente ricolonizzate dal lupo.
Ma quante volte questo grido di allarme è stato giustificato, e quante invece si è trattato solo di una ricerca al… lupo espiatorio?

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Franco PERCO* : la gestione faunistica tra tecnica ed etica

*Già Direttore Osservatorio Faunistico di Pordenone
*Già Direttore Parco Nazionale Monti Sibillini

 

Franco PERCO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quello che ha caratterizzato la tua figura professionale e quella di molti colleghi presenti anche nelle diverse istituzioni come Ministeri, Enti locali e Università, è stata la capacità non solo di accettare (a diversi livelli) ma di spingere, volere e cercare di lavorare per favorire l’entrata della conservazione della natura e, in particolare, della gestione faunistica nel panorama culturale italiano. Adesso, a che punto siamo?
Accettare, a diversi livelli, mi piace. Solo che “accettare” va inteso in senso comunicativo, cioè costruire un rapporto, una dialettica, parlare e anche litigare, ma non chiudere mai la porta in faccia. Ho – abbiamo – accettato il dialogo, la discussione: non tanto i contenuti. Sui quali, in diverse occasioni, dove si poteva e con chi si doveva, abbiamo espresso pareri diversi.
Saltando ciò che è stato fatto, l’elenco non sarebbe facile, mi chiedi “a che punto siamo?”. Siamo al ben noto punto “della delusione indomita”. Delusi, ma senza abbassare le armi.
A dir il vero poche volte siamo stati contenti o, almeno, fiduciosi. Potrei citare, per quanto mi riguarda, dal 1972 al 1996 nel FVG (Friuli Venezia Giulia ndr), ma a salti, alternando momenti di sconforto e altri di entusiasmo. Inoltre, a livello nazionale, subito dopo la 394 (1991), per un breve periodo. E poi, nel momento di Natura 2000. Un entusiasmo canguroide, dunque. Oggi? Beh, non possiamo che risalire. Ma scherzo, qualcosa di buono è stato fatto.
Posso avere un avvocato?

Mi piace il concetto di delusione indomita e lo condivido. È una qualità umana, eterna, di chi vorrebbe il meglio. Ma, cosa intendi esattamente per “canguroide”?
Il Canguro (iniziale maiuscola) salta e quindi evita ostacoli ma non è detto che vada sempre verso la meta giusta. In un certo senso può anche fare anche grandi salti indietro. Quindi è un “progresso” che può avere molte ombre.

Spiegati meglio, Franco
Inizio con il discutere la prassi dell’evitare gli ostacoli, modulo comportamentale tipico del Canguro. Ma è il termine ostacolo che voglio correggere, da subito. Dovremmo – ma qui veniamo ai casi nostri e lasciamo perdere le similitudini – sostituire ostacoli con problemi o questioni. Saltare un ostacolo, evitarlo è buona cosa. Ma “evitare” un problema non va bene. E il mondo dei conservazionisti, sia quando era soddisfatto ma anche quando non lo era, ha evitato di andare a fondo sui quesiti posti dalla gestione faunistica.
Insomma, ci si è accontentati dei risultati raggiunti, quando c’erano, senza andare a indagare la struttura della gestione.

Cioè?
Analizzare i problemi strutturali della gestione faunistica in Italia poteva essere pericoloso. In primo luogo i conservazionisti, come categoria generica, non hanno obiettivi comuni e condivisi. O meglio. L’obiettivo è la conservazione, ok?

Certo
Bene. Ma questo è banale. È il “come” lo si raggiunge che divide i professionisti, i cultori, gli appassionati di Natura.
Poiché il come diventa a sua volta un obiettivo, secondo il consueto schema dei “mezzi che diventano fini”. E allora, l’analizzare sino il fondo il “come” avrebbe spaccato il fronte.

Vediamo se interpreto bene quello che sostieni. L’obiettivo è la conservazione, mettiamo del Camoscio. Il “come” può essere, per esempio, vietando la caccia, reintroducendolo, facendo una caccia di selezione e migliore, opponendosi a interventi distruttivi dell’ambiente etc.. Il primo trova i cacciatori contrari ma piace agli ambientalisti, il secondo è oneroso anche socialmente, il terzo spacca il fronte venatorio e non convince gli altri, il quarto significa entrare nella politica e ruffianarsi con i partiti e con gli amministratori. È questo che intendi?
Esattamente. E tutto questo con una specie facile da gestire, come il Camoscio. Ma come si diceva, densa di problemi di vario tipo, sociali e non solo. In genere, le categorie interessate alla gestione faunistica sono gli ambientalisti e i cacciatori. Più raramente anche gli agricoltori e meno ancora i cittadini. Ma le prime due categorie si dividono sempre sul “come” conservare e questo è uno dei problemi più grossi.
Dobbiamo riconoscere che non siamo andati a fondo in questa intricata questione. L’abbiamo saltata, da bravi canguri entusiasti.

Mettere tutti d’accordo è però impossibile. Anche se, professionalmente, non rifiuto un compromesso, in vista di obiettivi chiari.
Condivido. Ma l’analisi è mancata anche sotto un altro punto di vista. E, bada bene, è quello che sta avvenendo oggi.

Allora, vediamo il secondo punto.

(continua)

Però, Franco, ci sarebbe prima un’altra questione. Al di là dei difetti dell’analisi. Il mondo venatorio e il mondo ambientalista invocano spesso motivi, obiettivi e risultati “etici”. Il tutto spesso a caso e non è un accidente di percorso, visto che spesso anche i professionisti dell’etica riescono a parlarne per ore senza darne una definizione se non un generico “modo di stare nel mondo” (anche il mio sistema immunitario mi fa stare al mondo). Non credi che l’etica sia un pessimo surrogato di assenza di tecnica?
Hai ragione. Ma mi spingerei un po’ più in là. L’etica di permette di restare in superficie, di evitare il discorso tecnico. La Nutria non si tocca. Perché la sua incolumità è sacra. Piuttosto la catturiamo e la liberiamo da qualche parte oppure la ospito nel mio giardino.
Permettimi l’ironia: sono soluzioni nutrienti per l’ego “animalista”.
Io, invece, sono per l’etica della responsabilità (Verantworungtsethik) nel senso più weberiano del termine. Ciò che vorremmo si faccia, ciò che è morale, va giudicato e valutato per gli effetti che produce. Al contrario, l’etica dei principi (Gesinnungsethik) dice di operare secondo i propri valori, quelli di ciascuno, costi quello che costi. Ora, nella gestione faunistica, che è poi il nostro rapporto con gli animali selvatici, difendere i nostri valori diventa spesso un autogol. In primo luogo perché non risolve il problema e quindi si è costretti ad affrontarlo, continuamente. In secondo luogo perché questo atteggiamento non è “empatico”, cioè ignora i problemi (umani) altrui. Chi se ne frega dello stato di disagio, di – poniamo – Paolo Rossi? Io, almeno, sono a posto con la mia coscienza. Dicono e pensano così, questi simpatici (!) avversari. Vuoi alcuni esempi? Facile: sono i casi ben noti del Cinghiale e del Lupo.

(continua)

Ettore RANDI* : il ruolo della genetica nella biologia della conservazione

*Già Fondatore e Direttore Laboratorio Genetica-ISPRA
*Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali, Università Bologna
*Università Aalborg, Danimarca

 

Mai come oggi parole come DNA, cromosoma, codice genetico e genomica fanno parte del vocabolario dei media. Dalla TV alla rete, passando per i social, dall’esercizio nella risoluzione spettacolarizzata dei diversi delitti alla determinazione del nostro carattere, dalla filosofia dell’epigenetica passando per la medicina fino alla gestione delle altre specie che con la nostra convivono, sembra ci sia un argomento che più di tutti sbaraglia dubbi e dà certezze granitiche al presentatore della teoria di turno: la genetica. Questo nostro risulta essere quindi un periodo estremamente fecondo per i genetisti, ma è proprio così?

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Gianni PAVAN*: la bioacustica al servizio della biodiversità

*Dipartimento di Scienza della Terra e dell’Ambiente. Università degli Studi di Pavia
* Direttore del Centro Interdisciplinare di Bioacustica e Ricerche Ambientali
*Direttore della Banca Dati Spiaggiamenti

 

 

Gianni PAVAN

Da sempre ti occupi di bioacustica e vorrei chiederti come hai iniziato.
Ho iniziato negli anni ’80, al primo anno di Scienze Naturali, per cercare di coniugare la mia passione per la musica, l’elettronica e la registrazione sonora con la natura, altra mia grande passione. Al tempo la bioacustica era praticamente sconosciuta in Italia, i riferimenti erano soprattutto francesi, inglesi e americani. Gli strumenti erano assolutamente analogici e l’audio digitale era agli albori. La mia tesi di Laurea, vista con sospetto da molti, è stata “Analisi con calcolatore del canto degli uccelli”. In questo sono stato un precursore di quella che ora è la “computational bioacoustics”.

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