Luigi BOITANI*: Status della biologia della conservazione in Italia

*Dipartmento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin, Università La Sapienza, Roma
*Chair LCIE Specialist Group
*CEO Fondazione Segré, Ginevra

 

Da più di 40 anni ti occupi di mettere in pratica la tutela della biodiversità nel nostro paese e nel resto del mondo. Siamo alla fine del decennio della biodiversità (2011-2020). Quali sono i maggiori obiettivi che sono stati raggiunti globalmente?

Gli obiettivi della conservazione sono necessariamente utopistici e, per definizione, destinati a restare irraggiungibili. Ad esempio, l’obiettivo “zero-extinction” è impossibile in un contesto di continua crescita demografica umana. Ma la conservazione ha raggiunto molti piccoli obiettivi locali: ad esempio un aumento notevole delle aree protette a scala mondiale. Molte specie in pericolo salvate dall’estinzione sicura e molti trend negativi rallentati e talvolta fermati.

E in Italia?
Anche in Italia abbiamo i nostri successi. L’orso del Trentino, ad esempio, può ben essere citato come fiore all’occhiello. La stessa espansione del lupo, di tante specie di ungulati sull’Appennino. La rete di aree protette Natura 2000 e di riserve e parchi regionali. Certo, non tutto è funzionante a dovere e penso alla drammatica perdita di habitat costieri, ma se paragoniamo lo stato attuale a quello di 50 anni fa, nel complesso siamo in condizioni migliori


Pensi che nel nostro paese servano leggi più mirate alla conservazione e alla gestione o pensi che quelle esistenti siano sufficienti per una attività significativa?
Penso che non servano nuove leggi, basterebbe applicare quelle esistenti e dare credibilità all’azione di controllo e repressione dell’illegalità


Cosa pensi dell’assetto strutturale ed organizzativo dei diversi Enti che a vario titolo si occupano di conservazione e di gestione? E del grado di formazione che hai riscontrato?
In una Italia che viaggia ad una moltitudine di velocità diverse tra Regioni, Stato, Province, anche la conservazione della natura ha i suoi picchi di eccellenza e di disastro. Le competenze tecniche non sono male, e in molti casi sono ottime, ma quelle politiche sono pessime. La incompetenza, superficialità e ignavia della classe politica è drammatica a tutti i livelli: le eccezioni ci sono ma restano, appunto eccezioni. La struttura organizzativa, poi, è lontanissima dalla semplice efficienza: competenze sovrapposte e conflitti o vuoti di potere sono la norma.


Quali sono dei buoni esempi di gestione adattativa in cui tu hai lavorato?
Alcuni Parchi nazionali hanno una gestione sana ed efficiente in grado di accompagnare, in maniera adattativa, la dinamica ecologica e sociale ma, senza nominarli, sono troppo pochi. La gestione venatoria va citata come esempio di contrario della gestione adattativa: ogni anno si ripetono rituali di processi decisionali sui calendari venatori che non tengono minimamente conto delle realtà biologiche ed ecologiche sui quali incidono. Ma anche molte organizzazioni ambientaliste peccano di rigidità e non sanno cambiare logiche rispetto a condizioni ambientali che sono molto diverse da quando è iniziata la conservazione in Italia.


Complessivamente le aree protette, in Italia, hanno raggiunto gli obiettivi con i quali sono stati istituite?
Abbiamo raggiunto una notevole percentuale di territorio protetto, e questo è un ottimo obiettivo, ma la realtà è che la rete non copre in maniera ottimale la diversità di condizioni ecologiche del nostro Paese. Ad esempio, proteggiamo tanti pizzi di montagne e poche coste. Inoltre, tante aree protette si occupano troppo di organizzare feste e fiere dei cibi locali (tanto per fare un esempio) e poco di gestire l’evolversi degli ecosistemi naturali che proteggono


Qual è oggi, in Italia, il ruolo delle aree a diverso regime di protezione?
Ogni area protetta è articolata in sotto-aree destinate a diversi usi, questa è sana gestione ed è bene che sia così. Resta da vedere come obiettivi e strumenti di ogni sotto-area siano funzionali al disegno complessivo dell’area protetta.


Uno degli scopi con i quali sono state istituite le aree protette è quello di essere dei laboratori a cielo aperto in cui sperimentare tattiche e strategie conservative. Come e dove ci siamo riusciti?
I
n questo credo che abbiamo fallito quasi del tutto. Non conosco (e spero di sbagliarmi) esempi di attività virtuose sperimentate in un’area protetta che siano state riprese e applicate in aree esterne.


Rete Natura 2000 ha quasi 30 anni e la sua costruzione si basa prevalentemente sulla componente vegetale, ciò ha sempre comportato dei grossi gap conservativi e gestionali. A quando una Rete Natura che consideri anche il patrimonio zoologico?
Ormai si è perso il treno per questo obiettivo. La Rete Natura 2000 è stata fatta con un occhio da botanico o, al massimo da entomologo: risponde quindi a necessità di piccoli spazi dove in effetti animali o piante a bassa o nulla mobilità possono essere protetti. Ma la Rete è quasi inutile per i vertebrati di medie e grandi dimensioni che hanno ambiti territoriali molto più vasti. Ma forse è un bene così perché la natura non può essere parcellizzata in piccole aree e io sono un fervente sostenitore della necessità di trovare forme di coesistenza, non di separazione tra uomo e natura selvatica.


Oltre confine, come giudicano le nostre politiche conservative?
Non lo so. Ma ho sempre notato che le aree che hanno maggiore successo con gli stranieri sono quelle che offrono bei paesaggi, magari senza tante specie importanti ma solo belli da vedere. Il Parco delle Cinque Terre ne è l’esempio migliore. Anche il paesaggio è biodiversità, certo, ma a me sembra una visione un po’ riduttiva della natura.

Franco PERCO* : la gestione faunistica tra tecnica ed etica

*Già Direttore Osservatorio Faunistico di Pordenone
*Già Direttore Parco Nazionale Monti Sibillini

 

Franco PERCO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quello che ha caratterizzato la tua figura professionale e quella di molti colleghi presenti anche nelle diverse istituzioni come Ministeri, Enti locali e Università, è stata la capacità non solo di accettare (a diversi livelli) ma di spingere, volere e cercare di lavorare per favorire l’entrata della conservazione della natura e, in particolare, della gestione faunistica nel panorama culturale italiano. Adesso, a che punto siamo?
Accettare, a diversi livelli, mi piace. Solo che “accettare” va inteso in senso comunicativo, cioè costruire un rapporto, una dialettica, parlare e anche litigare, ma non chiudere mai la porta in faccia. Ho – abbiamo – accettato il dialogo, la discussione: non tanto i contenuti. Sui quali, in diverse occasioni, dove si poteva e con chi si doveva, abbiamo espresso pareri diversi.
Saltando ciò che è stato fatto, l’elenco non sarebbe facile, mi chiedi “a che punto siamo?”. Siamo al ben noto punto “della delusione indomita”. Delusi, ma senza abbassare le armi.
A dir il vero poche volte siamo stati contenti o, almeno, fiduciosi. Potrei citare, per quanto mi riguarda, dal 1972 al 1996 nel FVG (Friuli Venezia Giulia ndr), ma a salti, alternando momenti di sconforto e altri di entusiasmo. Inoltre, a livello nazionale, subito dopo la 394 (1991), per un breve periodo. E poi, nel momento di Natura 2000. Un entusiasmo canguroide, dunque. Oggi? Beh, non possiamo che risalire. Ma scherzo, qualcosa di buono è stato fatto.
Posso avere un avvocato?

Mi piace il concetto di delusione indomita e lo condivido. È una qualità umana, eterna, di chi vorrebbe il meglio. Ma, cosa intendi esattamente per “canguroide”?
Il Canguro (iniziale maiuscola) salta e quindi evita ostacoli ma non è detto che vada sempre verso la meta giusta. In un certo senso può anche fare anche grandi salti indietro. Quindi è un “progresso” che può avere molte ombre.

Spiegati meglio, Franco
Inizio con il discutere la prassi dell’evitare gli ostacoli, modulo comportamentale tipico del Canguro. Ma è il termine ostacolo che voglio correggere, da subito. Dovremmo – ma qui veniamo ai casi nostri e lasciamo perdere le similitudini – sostituire ostacoli con problemi o questioni. Saltare un ostacolo, evitarlo è buona cosa. Ma “evitare” un problema non va bene. E il mondo dei conservazionisti, sia quando era soddisfatto ma anche quando non lo era, ha evitato di andare a fondo sui quesiti posti dalla gestione faunistica.
Insomma, ci si è accontentati dei risultati raggiunti, quando c’erano, senza andare a indagare la struttura della gestione.

Cioè?
Analizzare i problemi strutturali della gestione faunistica in Italia poteva essere pericoloso. In primo luogo i conservazionisti, come categoria generica, non hanno obiettivi comuni e condivisi. O meglio. L’obiettivo è la conservazione, ok?

Certo
Bene. Ma questo è banale. È il “come” lo si raggiunge che divide i professionisti, i cultori, gli appassionati di Natura.
Poiché il come diventa a sua volta un obiettivo, secondo il consueto schema dei “mezzi che diventano fini”. E allora, l’analizzare sino il fondo il “come” avrebbe spaccato il fronte.

Vediamo se interpreto bene quello che sostieni. L’obiettivo è la conservazione, mettiamo del Camoscio. Il “come” può essere, per esempio, vietando la caccia, reintroducendolo, facendo una caccia di selezione e migliore, opponendosi a interventi distruttivi dell’ambiente etc.. Il primo trova i cacciatori contrari ma piace agli ambientalisti, il secondo è oneroso anche socialmente, il terzo spacca il fronte venatorio e non convince gli altri, il quarto significa entrare nella politica e ruffianarsi con i partiti e con gli amministratori. È questo che intendi?
Esattamente. E tutto questo con una specie facile da gestire, come il Camoscio. Ma come si diceva, densa di problemi di vario tipo, sociali e non solo. In genere, le categorie interessate alla gestione faunistica sono gli ambientalisti e i cacciatori. Più raramente anche gli agricoltori e meno ancora i cittadini. Ma le prime due categorie si dividono sempre sul “come” conservare e questo è uno dei problemi più grossi.
Dobbiamo riconoscere che non siamo andati a fondo in questa intricata questione. L’abbiamo saltata, da bravi canguri entusiasti.

Mettere tutti d’accordo è però impossibile. Anche se, professionalmente, non rifiuto un compromesso, in vista di obiettivi chiari.
Condivido. Ma l’analisi è mancata anche sotto un altro punto di vista. E, bada bene, è quello che sta avvenendo oggi.

Allora, vediamo il secondo punto.

(continua)

Però, Franco, ci sarebbe prima un’altra questione. Al di là dei difetti dell’analisi. Il mondo venatorio e il mondo ambientalista invocano spesso motivi, obiettivi e risultati “etici”. Il tutto spesso a caso e non è un accidente di percorso, visto che spesso anche i professionisti dell’etica riescono a parlarne per ore senza darne una definizione se non un generico “modo di stare nel mondo” (anche il mio sistema immunitario mi fa stare al mondo). Non credi che l’etica sia un pessimo surrogato di assenza di tecnica?
Hai ragione. Ma mi spingerei un po’ più in là. L’etica di permette di restare in superficie, di evitare il discorso tecnico. La Nutria non si tocca. Perché la sua incolumità è sacra. Piuttosto la catturiamo e la liberiamo da qualche parte oppure la ospito nel mio giardino.
Permettimi l’ironia: sono soluzioni nutrienti per l’ego “animalista”.
Io, invece, sono per l’etica della responsabilità (Verantworungtsethik) nel senso più weberiano del termine. Ciò che vorremmo si faccia, ciò che è morale, va giudicato e valutato per gli effetti che produce. Al contrario, l’etica dei principi (Gesinnungsethik) dice di operare secondo i propri valori, quelli di ciascuno, costi quello che costi. Ora, nella gestione faunistica, che è poi il nostro rapporto con gli animali selvatici, difendere i nostri valori diventa spesso un autogol. In primo luogo perché non risolve il problema e quindi si è costretti ad affrontarlo, continuamente. In secondo luogo perché questo atteggiamento non è “empatico”, cioè ignora i problemi (umani) altrui. Chi se ne frega dello stato di disagio, di – poniamo – Paolo Rossi? Io, almeno, sono a posto con la mia coscienza. Dicono e pensano così, questi simpatici (!) avversari. Vuoi alcuni esempi? Facile: sono i casi ben noti del Cinghiale e del Lupo.

(continua)

Ettore RANDI* : il ruolo della genetica nella biologia della conservazione

*Già Fondatore e Direttore Laboratorio Genetica-ISPRA
*Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali, Università Bologna
*Università Aalborg, Danimarca

 

Mai come oggi parole come DNA, cromosoma, codice genetico e genomica fanno parte del vocabolario dei media. Dalla TV alla rete, passando per i social, dall’esercizio nella risoluzione spettacolarizzata dei diversi delitti alla determinazione del nostro carattere, dalla filosofia dell’epigenetica passando per la medicina fino alla gestione delle altre specie che con la nostra convivono, sembra ci sia un argomento che più di tutti sbaraglia dubbi e dà certezze granitiche al presentatore della teoria di turno: la genetica. Questo nostro risulta essere quindi un periodo estremamente fecondo per i genetisti, ma è proprio così?

Read moreEttore RANDI* : il ruolo della genetica nella biologia della conservazione

Gianni PAVAN*: la bioacustica al servizio della biodiversità

*Dipartimento di Scienza della Terra e dell’Ambiente. Università degli Studi di Pavia
* Direttore del Centro Interdisciplinare di Bioacustica e Ricerche Ambientali
*Direttore della Banca Dati Spiaggiamenti

 

 

Gianni PAVAN

Da sempre ti occupi di bioacustica e vorrei chiederti come hai iniziato.
Ho iniziato negli anni ’80, al primo anno di Scienze Naturali, per cercare di coniugare la mia passione per la musica, l’elettronica e la registrazione sonora con la natura, altra mia grande passione. Al tempo la bioacustica era praticamente sconosciuta in Italia, i riferimenti erano soprattutto francesi, inglesi e americani. Gli strumenti erano assolutamente analogici e l’audio digitale era agli albori. La mia tesi di Laurea, vista con sospetto da molti, è stata “Analisi con calcolatore del canto degli uccelli”. In questo sono stato un precursore di quella che ora è la “computational bioacoustics”.

Read moreGianni PAVAN*: la bioacustica al servizio della biodiversità

di Nicola BACCETTI

Ricordo bene la mitica escursione durante la conferenza di Grado sulle zone umide. Fabio la organizzò con due barche separate, solo una però chiusa e riscaldata, l’altra totalmente esposta alla gelida bora che stava ghiacciando tutta la laguna. Purtroppo il Dr. Hoffmann, big boss dell’evento e già molto anziano, era finito nel gruppo sbagliato.

Sbarcò col viso arrossato, gli occhi gonfi e le sopracciglia incrostate dal ghiaccio. Alan Johnson – altro amico che ci ha lasciati troppo presto – non perse l’occasione per una battuta un po’ pesante ‘oh, sembra quasi che abbia preso la mixomatosi’.

Fabio riuscì veloce ad intromettersi, con umorismo inglese e un perfetto aplomb, commentando ‘beh, è vero che siamo a una conferenza sul Mediterraneo, ma non occorre che vi ricordi che ci troviamo nel punto più a nord’.

di Fabio PAGAN

Tristissima notizia proprio nel Darwin Day. Si è spento questa mattina, all’Ospedale di Cattinara a Trieste, dov’era ricoverato da tempo, il naturalista Fabio Perco, fondatore e direttore della Riserva dell’Isola della Cona, alla foce dell’Isonzo. Era nato a Trieste 72 anni fa.

Ornitologo ed etologo, in passato docente in vari atenei, autore di numerosi saggi e manuali, fotografo e sensibile pittore del mondo degli uccelli e degli ungulati, Fabio è stato un appassionato cultore dello studio e dell’osservazione della natura. Spesso assieme al fratello Franco, direttore del Parco nazionale dei Monti Sibillini, tra Marche e Umbria.

In passato ci incrociavamo abbastanza frequentemente con Fabio e con Franco anche per le comuni radici di studi biologici. E realizzai con loro diverse interviste, per “Il Piccolo” e per la RAI. Poi ci siamo persi di vista. L’ultima volta con Fabio fu qualche anno fa, in occasione di una conferenza a Trieste di Lisa Signorile. 

Davanti a un bicchiere di birra, per l’ennesima volta mi aveva invitato ad andarlo a trovare all’Isola della Cona. E io, per l’ennesima volta, gli avevo promesso una visita. 
Ora è troppo tardi. Ciao, Fabio.