Gatti: predatori e prede

I flame sui gatti sono una costante nei social media, ma non solo. Generalmente al gatto viene contestato il ruolo di predatore affiliato alla nostra specie, sempre più raramente se ne parla come preda e in entrambi i casi, piaccia o meno, le loro “colpe” ricadono su di noi che ne siamo responsabili (direttamente e indirettamente)

Un mese fa, a Vouliagmeni (20 km est di Atene) un’amica vive una esperienza molto impattante quando la sua micia diventa una preda.

Macri PURICELLI è una giornalista con una intensa empatia verso gli altri animali, protagonisti dei suoi libri

 

 

 

 

Non è una crisi (soltanto) climatica

di Marco SALVATORI*

* Dottorando di ricerca (PhD student)
MUSE, Museo delle Scienze di Trento
Università di Firenze, Dipartimento di Biologia

Il fallimento della conferenza internazionale sul clima di Madrid ha sollevato l’indignazione di una larga fetta dell’opinione pubblica mondiale. Negli ultimi anni la questione climatica ha assunto una posizione cruciale nel dibattito pubblico e ormai ogni lettore di giornale comincia a familiarizzare con le dinamiche del ciclo del carbonio. Gli eventi climatici estremi, come inondazioni, bombe d’acqua, siccità e temperature anomale si stanno già verificando con frequenza ed intensità maggiore, tanto che anche l’uomo della strada inizia a toccare con mano le conseguenze delle alterazioni climatiche. La sensibilità degli italiani al tema è stata certificata da un sondaggio recentemente effettuato dall’istituto demoscopico SWG, dal quale emerge come il cambiamento climatico sia in cima alla classifica delle apprensioni, selezionato come massimo fattore di preoccupazione dal 51% degli intervistati. Già un sondaggio dell’anno scorso, commissionato dalla Banca Europea degli Investimenti, mostrava come il popolo italiano fosse quello più preoccupato per il cambiamento climatico fra tutti quelli dell’Unione Europea.

 

Grifone – Gyps fulvus. Categoria della lista rossa italiana: IN PERICOLO CRITICO

Questa tendenza generale si è riflessa anche in un’aumentata copertura mediatica del tema, e in molte persone inizia a farsi strada la convinzione che ci troviamo nel bel mezzo di una crisi climatica. Il dibattito pubblico si è fino ad ora concentrato sulle emissioni di gas climalteranti e di come ridurle trasformando gli impianti di produzione di energia attraverso la transizione alle energie rinnovabili. Spesso a livello giornalistico quando si affronta il tema del contrasto al cambiamento climatico si finisce in un’argomentazione che si avvita verso “il miracolo tecnologico che ci salverà”, il coniglio tirato fuori dal cilindro di qualche ingegnere geniale. Questa visione poco lungimirante non tiene conto di tutte le variabili in campo: siamo sicuri di trovarci in una crisi soltanto climatica?

Quando nel 1497 l’esploratore italiano Giovanni Caboto attraccò sulla penisola canadese che poi avrebbe ribattezzato come ‘Terra nova’, riportò sul suo diario di bordo che il mare era talmente ricco di pesci che era possibile pescarli non soltanto con le reti, ma più semplicemente immergendo dei secchi nell’acqua. Poco meno di 500 anni dopo, nella sera del 2 Luglio 1992 in quella stessa provincia del Canada, centinaia di pescatori inferociti assaltano a spallate la porta della stanza in cui il ministro federale alla pesca, John Crosbie, sta annunciando ai giornalisti il divieto totale alla pesca del merluzzo nordico. Il governo canadese prende atto del collasso totale della popolazione di merluzzo e si vede costretto a bandirne la pesca commerciale, causando la perdita dell’impiego per 37.000 lavoratori e, conseguentemente, il disfacimento di un’intera comunità locale. Ventisette anni dopo, la popolazione di merluzzo nordico non si è ancora ripresa, la sua consistenza resta tuttora ben al di sotto del limite di guardia, ed il suo prelievo rimane consentito soltanto per la pesca ricreativa. Come è stato possibile tutto ciò? Negli anni successivi al 1960 l’introduzione di innovazioni tecnologiche nei pescherecci combinata all’espansione della flotta non ha dato tregua ai merluzzi. Soltanto fra il 1962 ed il 1977 la biomassa della popolazione era calata dell’80%. Purtroppo non si tratta di un caso isolato. Al momento il 60 % delle specie ittiche marine viene sfruttato al massimo della sua capacità rigenerativa ed un ulteriore 33% è sovra sfruttato e di conseguenza declinerà rapidamente nei prossimi anni.

 

Pelobate fosco – Pelobates fuscus. Categoria della lista rossa italiana: IN PERICOLO                                Gentile concessione di Jelger Herder

Un gruppo di entomologi americani l’ha battezzato “effetto del parabrezza”: quando negli anni Sessanta si attraversava con l’automobile una strada di campagna il parabrezza si ricopriva di insetti, tanto da dover fermarsi periodicamente per rimuoverli, appena quaranta anni dopo i vetri delle auto che attraversano quelle stesse strade sono intonsi. Si tratta di un aneddoto che molte persone di mezza età possono raccontare, e che è stato misurato e valutato scientificamente in diverse ricerche. Fra il 1989 ed il 2016 un team di biologi tedeschi ha catturato insetti in 63 località agricole della Germania per una ricerca a lungo termine. I preziosi dati raccolti in un intero trentennio hanno certificato un declino catastrofico, equivalente all’82% della biomassa. In questo studio, pubblicato nel 2017, i ricercatori hanno potuto verificare che questa drastica diminuzione riguardava non soltanto le specie di insetti più rare e a rischio di estinzione, ma anche le specie più comuni e diffuse. Gli autori di questo studio hanno imputato questo fenomeno principalmente al cambiamento delle pratiche agronomiche, con una maggior meccanizzazione, eliminazione di siepi, una frequenza più alta e pervasiva dell’aratura, un massiccio utilizzo di fertilizzanti e pesticidi. Conclusioni simili si potevano già ricavare da studi su falene e farfalle della Gran Bretagna, che evidenziavano un significativo declino della numerosità delle popolazioni in due terzi delle specie studiate. In questo caso le cause principali, oltre all’intensificarsi delle pratiche agricole, sono state individuate nella rimozione di boschi, siepi, praterie e nell’espandersi dell’urbanizzazione con la cementificazione del suolo. Questi studi si inseriscono all’interno di una mole di ricerche tendenzialmente concordi nel documentare un significativo, rapido e imponente declino nel numero degli insetti, ed hanno portato la comunità scientifica a parlare di un vero e proprio “armageddon” entomologico. A parte una ristretta minoranza di naturalisti ed appassionati, la maggior parte delle persone prova sentimenti di repulsione nei confronti degli insetti e potrebbe non essere particolarmente colpita da questi dati. Il punto è che gli insetti svolgono un ruolo chiave negli ecosistemi, primo fra tutti quello dell’impollinazione: oltre il 75% di tutte le varietà di piante coltivate richiede l’impollinazione animale. La quasi totalità delle piante a fiore selvatiche è impollinata da animali. Per dirla con il grande biologo Edward O. Wilson gli insetti sono “quelle piccole cose che fanno funzionare il mondo”. Il declino della biodiversità degli invertebrati colpisce anche le specie che vivono all’interno del suolo, depauperando la fertilità dei terreni, in particolare della loro materia organica. Effettivamente i suoli si stanno impoverendo, in particolare quelli agricoli, ed ancora una volta si tratta di un fenomeno che rischia di minare alla base la produzione del cibo per gli esseri umani.

Di tutte le specie vegetali ed animali finora valutate dall’ Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) il 25% risulta a rischio di estinzione: l’equivalente di un milione di specie viventi si estinguerà nel giro di pochi decenni se non verranno messi in atto progetti di conservazione. Molte specie scompariranno prima ancora che gli studiosi le scoprano e le classifichino. Per quanto riguarda il nostro paese i dati delle liste rosse, che valutano lo stato di conservazione delle diverse specie, non sono affatto confortanti: il 31% dei vertebrati italiani è minacciato di estinzione. Scorrendo tale lista non si può non rimanere colpiti dalla presenza di specie fino a poco tempo fa considerate molto comuni, come l’allodola, l’alzavola, l’anguilla, il rospo comune (nomen omen) e persino la passera d’Italia, che fino a pochi anni fa conviveva con gli esseri umani in quasi tutte le città e i borghi della penisola e ha subìto una pesante diminuzione. Il processo va però oltre il rischio di estinzione di alcune specie, perché comprende un decremento generale del numero di individui, e quindi della biomassa, di quasi tutte le specie selvatiche viventi, anche di quelle più comuni e diffuse. Alcuni ricercatori hanno coniato il termine “de-faunazione” per descrivere questo fenomeno antropogenico. In tutte le specie di vertebrati selvatici si è assistito ad una diminuzione media della numerosità del 25 %, dato che sale al 45% per gli animali invertebrati.

Ma quali sono le cause di questa erosione della diversità ed abbondanza della vita sul nostro pianeta? È forse il cambiamento climatico antropogenico il principale responsabile? La risposta è assolutamente no. Il cambiamento climatico è il principale impatto solo per alcune specie, come quelle che compongono o abitano le barriere coralline, quelle che risiedono alle elevate altitudini montane, quelle adattate a regioni aride, o quelle che vivono nell’artico. Senza dubbio il cambiamento climatico impatterà sempre più fortemente sulle specie viventi e sugli ecosistemi con l’andare del tempo, viste le ultime previsioni dell’IPCC, il comitato scientifico delle nazioni unite sui cambiamenti climatici, che prevedono un innalzamento della temperatura media di 1,5 gradi nei prossimi venti anni e di 3 gradi a fine secolo, stanti le attuali tendenze. Ma al momento gli organismi terrestri stanno venendo decimati principalmente dalla distruzione e dalla frammentazione del loro habitat operata dall’uomo, come conferma l’ultimo rapporto dell’IPBES, il comitato scientifico delle nazioni unite sulla biodiversità ed i servizi ecosistemici (molto meno famoso del suo “cugino” IPCC, ma egualmente importante).

Oltre un terzo della superficie terrestre è dedicata all’agricoltura e all’allevamento di animali domestici, superficie strappata alle foreste, alle praterie, alle aree umide. Allorché una superficie di foresta o di prateria viene convertita in terra coltivabile, la biodiversità di quel sistema crolla immediatamente, fino quasi ad annullarsi. L’effetto è ancora più drastico se la conversione porta all’urbanizzazione, e dal 1992 l’estensione delle aree urbane è più che raddoppiata. Attraverso la deforestazione, la bonifica delle aree umide, la cementificazione del suolo abbiamo distrutto e frammentato gli habitat naturali. La crescita esponenziale nel numero di strade ed autostrade ha ulteriormente isolato i frammenti di habitat rimasti, rendendo difficoltoso o impossibile lo spostamento degli individui fra un habitat idoneo e l’altro. Come dimostrato da una ricerca internazionale del 2018, gli animali tendono a muoversi di meno in aree fortemente antropizzate, effettuando spostamenti più a corto raggio, spesso ostacolati dalla presenza pervasiva delle infrastrutture umane e dall’assenza di corridoi ecologici. Se gli individui non riescono a muoversi fra i frammenti di habitat superstiti si interrompe il naturale scambio che mantiene vitali le popolazioni di qualsiasi organismo. Le piccole popolazioni isolate e formate da individui con elevato grado di consanguineità sono destinate a soccombere nel giro di poche generazioni.

Nell’era della globalizzazione e dei mezzi di trasporto intercontinentali, il secondo impatto per ordine di importanza è costituito dalle specie alloctone invasive. Si tratta di specie vegetali e animali che, volontariamente o involontariamente, vengono trasferite dagli esseri umani a migliaia di chilometri di distanza dal loro luogo di origine. Alcune di queste specie trovano nel nuovo ambiente, privo dei loro naturali concorrenti presenti nell’ecosistema originario, le condizioni perfette per diffondersi indisturbate. Queste diffusioni molto spesso avvengono a scapito delle specie native del luogo, che subiscono la “concorrenza sleale” e si avviano verso il declino. Ogni ecosistema locale è formato da una peculiare comunità di specie che si sono adattate alle condizioni ambientali locali e si sono co-evolute nei millenni, convivendo in un equilibrio dinamico. Ogni luogo del pianeta sarebbe perciò naturalmente caratterizzato da un determinato insieme di specie, ma negli ultimi decenni questa unicità delle comunità locali è messa in crisi dalle specie alloctone. Il fenomeno è talmente esteso e rilevante che stiamo assistendo ad una sorta di “globalizzazione della biodiversità”, in cui l’uomo sta rendendo più simili fra loro ecosistemi anche molto distanti, favorendo la diffusione delle specie generaliste, quelle in grado di sopravvivere in un ampio spettro di condizioni ambientali, a scapito di quelle specialiste, adattate a specifiche condizioni locali. I dati di ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) indicano che la lista delle specie alloctone invasive per il nostro paese è in costante aumento. Solo per citarne alcune: la zanzara tigre, la tartaruga americana dalle orecchie rosse, lo scoiattolo grigio americano, il gambero rosso della Louisiana, il siluro del Danubio, il gatto domestico, l’ailanto. Tutte queste specie, e centinaia di altre, danneggiano le specie native, compromettendone la sopravvivenza.

Dato che il dibattito pubblico si concentra sulle emissioni di gas serra e su come ridurle senza modificare sostanzialmente gli stili di vita è lecito porsi una domanda: se, per ipotesi, riuscissimo a convertire l’intero nostro settore energetico in modo da non renderlo più dipendente dai combustibili fossili le pressioni sulle specie viventi e sugli ecosistemi cesserebbero? In altre parole, qualora fossimo in grado di applicare motori elettrici alimentati da energie rinnovabili a mezzi di trasporto, pescherecci, ruspe, persino aerei e azzerassimo le emissioni climalteranti si fermerebbero automaticamente la sovra-pesca, la deforestazione, la frammentazione degli habitat, la cementificazione, il proliferare di strade e barriere ecologiche, la propagazione delle specie alloctone? Certamente no. Affrontare il cambiamento climatico soltanto con l’utilizzo di tecnologia, ammesso che sia possibile, lascerebbe invariate le pressioni sul mondo vivente e non eviterebbe, da solo, il collasso degli ecosistemi.

 

Testuggine Palustre Europea – Emys orbicularis. Categoria lista rossa italiana: IN PERICOLO Gentile concessione di Riccardo Muraro

Prendiamo l’utilizzo dell’energia eolica: uno studio di quest’anno pubblicato sulla rivista “Energy Policy” ha calcolato il potenziale energetico del continente europeo qualora tutte le aree disponibili e tecnicamente idonee, cioè quasi metà dell’intera superficie del continente, fossero dedicate all’impianto di turbine eoliche. I risultati ad un primo sguardo sono stupefacenti: con una tale massiva installazione di pale eoliche l’Europa da sola sarebbe in grado di soddisfare l’intera domanda energetica mondiale. Fantastico! Ma hanno gli autori di questa pubblicazione considerato l’impatto che una tale gigantesca operazione avrebbe sull’avifauna? Diverse ricerche hanno misurato l’impatto che le pale eoliche possono avere sugli uccelli, e i risultati sono preoccupanti, specialmente considerando alcune fasi delicate come le migrazioni. Senz’altro l’energia eolica può esserci utile per eliminare l’utilizzo di combustibili fossili, ma erigerle ovunque senza tenere in considerazione la biodiversità porterebbe ad un grave danno per le già vacillanti popolazioni di uccelli.

Simili conclusioni possono essere ricavate per quanto riguarda l’energia idroelettrica, considerata da molti un’energia “pulita”. Le dighe causano alterazioni profonde degli ecosistemi fluviali ed ostacolano il movimento degli organismi acquatici lungo i corsi d’acqua. In questo caso esistono misure di mitigazione, come le scale di risalita per i pesci, ma di nuovo edificare dighe in ogni corso d’acqua del mondo per eliminare l’emissione di anidride carbonica causerebbe danni profondi alle comunità biologiche dei fiumi, già sotto pressione per le specie alloctone e l’inquinamento delle acque. Se i pescherecci dotati di sofisticate strumentazioni GPS e celle frigorifere fossero alimentati da energia rinnovabile invece che dal petrolio, sarebbe forse la sovra pesca meno dannosa per la fauna marina? Se le ruspe e le seghe che abbattono le foreste tropicali fossero dotate di batterie al litio sarebbe la deforestazione meno esiziale per le comunità biologiche che le abitano? Anche immaginando che l’umanità si dotasse di fonti di energia che non abbiano nessun impatto diretto sugli ecosistemi, come per esempio la mitica fusione nucleare, se continuassimo ad utilizzare l’energia ricavata contro la biosfera staremmo comunque andando incontro alla crisi ecologica. L’umanità non sta solamente aumentando l’entropia dell’atmosfera terrestre, ma anche quella delle comunità biologiche, e questi due processi vanno considerati insieme. Focalizzarsi sul cambiamento del clima senza tenere presente la perdita di biodiversità può forse essere per molti una visione confortante, perché insita nella visione antropocentrica dell’universo tipica delle culture occidentali, nella quale gli altri esseri viventi non occupano un posto di rilievo. Questa prospettiva è però estremamente parziale e, come abbiamo visto, può portare a escogitare false soluzioni.

Quindi che fare? Una volta messi a fuoco entrambi gli aspetti della crisi ambientale contemporanea, cioè il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, con un approccio integrato, riconoscendo le cause comuni così come le peculiarità specifiche emerge spontaneamente una soluzione possibile. Si tratta del ripristino ecologico. Laddove gli habitat naturali sono stati distrutti o fortemente degradati è possibile reintegrare l’ambiente originario, ricreando foreste, praterie, torbiere, aree umide. Per ripristinare degli ecosistemi sani è necessario inoltre favorire la presenza di alcune specie animali e, laddove opportuno, reintrodurle. Si ristabilirebbe così la corretta struttura di vegetali, erbivori, predatori, necrofagi e detritivori e di conseguenza si ricreerebbe la naturale dinamica del ciclo degli elementi minerali come carbonio, azoto, fosforo e il corretto ciclo delle acque. Ciliegina sulla torta, la rinaturalizzazione degli ecosistemi su larga scala consentirebbe di risucchiare dall’atmosfera grandi quantità di anidride carbonica, trattenendola nei tessuti viventi e nei suoli, consentendoci in un colpo solo di contrastare sia la perdita di biodiversità che il cambiamento climatico. Come se non bastasse, tale operazione, da compiersi impiegando le migliori competenze botaniche, zoologiche ed ecologiche, porterebbe ad ingenti benefici per la salute psico-fisica degli esseri umani, soprattutto se ad essere ripristinati fossero gli ecosistemi agricoli e periurbani, al momento i più degradati.

Un esempio involontario di ripristino ecologico è dato dalla progressiva riforestazione delle aree montane e collinari della nostra penisola: i boschi coprono ad oggi oltre il 35% del territorio nazionale e la loro superficie è raddoppiata rispetto al 1930. Come conseguenza dell’abbandono di queste aree più impervie da parte di milioni di persone che, a partire dagli anni Sessanta, sono andate vieppiù concentrandosi nelle città delle zone pianeggianti e costiere, le foreste hanno recuperato i terreni che erano stati loro sottratti secoli prima. Si è trattato di un processo guidato dalle tendenze socioeconomiche, e non certo di un ripristino ecologico volontario e programmato. Ciononostante, i risultati sono sorprendenti: assieme al bosco sono ritornate molte specie animali che fino a pochi decenni fa erano ridotte ai minimi termini, come cervi, caprioli, cinghiali, camosci, lupi, istrici e moltissime altre.

 

Lontra europea – Lutra lutra. Categoria della lista rossa italiana: IN PERICOLO

Esiste oggi la possibilità di restituire volontariamente alla natura vaste aree degradate, come porzioni della pianura padana, una delle aree più antropizzate al mondo, con vasti benefici per il clima, la biodiversità ed il nostro benessere. Sta a noi cogliere questa opportunità.

 

Bibliografia

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Agricoltura, cibo e ambiente, tra percezioni popolari e scomode verità.

Come i cittadini del Terzo Millennio si pongono rispetto a temi delicati e complessi al contempo, quali la produzione di cibo e i suoi rapporti con la salute e con l’ambiente

L’agricoltura sembra tremendamente facile quando il tuo aratro è una matita e sei lontano migliaia di chilometri dal campo di grano.”

Una frase, divenuta poi celebre, di Dwight Eisenhower, prima Capo di stato maggiore dell’esercito degli Stati Uniti, poi presidente per due successivi mandati. Erano gli anni in cui il boom demografico mondiale faceva lievitare la richiesta di cibo, proprio mentre le campagne si spopolavano a favore delle città. Due fenomeni fra loro in contrasto che avrebbero presto condotto agli attuali scenari agricoli, economici e sociali del Mondo occidentale. Scenari divenuti spesso conflittuali, nei quali sono molte più le persone che, appunto, impugnano una “matita” di quelle che adoperano un aratro. Ciò ha condotto a un profondo scollamento fra realtà e percezione delle dinamiche agricole e agroalimentari, perdendosi nel tempo gli ordini di grandezza dei fenomeni globali agricoli e demografici.

Diverse quindi le domande cui dare risposta, a partire dai fenomeni che hanno generato una spasmodica ricerca di naturalità nei cibi e negli stili di vita, ponendosi in dura contrapposizione ad attività produttive divenute invece fortemente tecnologiche, come appunto l’agricoltura moderna. Questa è davvero la macchina di morte che viene descritta, con la complicità dell’industria alimentare e della grande distribuzione, oppure è la recente narrazione  mediatica ad aver alterato la percezione popolare dei molteplici rapporti rischi/benefici dell’attuale società? Per meglio comprendere tali dinamiche si è deciso di intervistare Donatello SANDRONI, giornalista e divulgatore scientifico, laureato in Scienze agrarie con dottorato in chimica, biochimica ed ecologia degli antiparassitari.

In un paese caratterizzato da decenni di convergenze parallele e di posizioni manichee su qualsiasi argomento, c’è un punto fisso sul quale tutta l’Italia converge: la bontà del cibo naturale. Il cibo naturale è buono (nessuno mai discuterebbe il suo valore organolettico), il cibo naturale fa bene (nessuno mai discuterebbe il suo valore intrinseco salvifico). L’egemonia del consenso, però, lascia il passo all’angoscia e alla inevitabile polarizzazione delle nostre opinioni quando dobbiamo definire che cosa esattamente sia il cibo naturale. Qualche definizione utile?

Semplicemente, il cibo naturale esiste per lo più nel marketing di chi lo vende. Un pesce pescato in mare può essere considerato naturale, a patto di prenderlo così com’è con una canna da pesca e cucinarselo in padella, che di per sé ha già poco di naturale. Se poi si compra quel pesce al supermercato, bello pulito in un plateau di polistirolo, o magari surgelato, la sua naturalità a mio avviso perde già parecchi punti. Del tutto innaturale invece il grano che abbiamo usato per farci un piatto di pasta, né ha alcunché di naturale una moderna melanzana, un pomodoro, una mela o qualsiasi altro frutto od ortaggio comunemente reperibile oggi sul mercato.

I loro antenati erano completamente diversi, tanto che spesso risultavano immangiabili. Tanto meno può essere considerato “naturale” il vino, moda di recente successo su media e social, dal momento che tale prodotto deriva da una domesticazione selettiva di una pianta rampicante spontanea, la vite, i cui frutti sono stati migliorati nel tempo proprio al fine di essere schiacciati e avviati a processi di trasformazione guidati dalla mano dell’uomo. Sperando peraltro che la mano sia bella ferma, o il vino diventa imbevibile, checché ne dicano certi produttori di vino “del contadino” che hanno la sfacciataggine di spacciare per peculiarità distintive dei gravi difetti olfattivi e organolettici. Da circa diecimila anni, da quando cioè l’Uomo ha abbandonato lo status di cacciatore-raccoglitore divenendo agricoltore-allevatore, tutti i vegetali coltivati e gli animali allevati sono stati soggetti a una profonda e continua selezione nel tempo al fine di essere più adatti ai nostri bisogni.

Nessuno oggi riconoscerebbe il mais nel Teosinte centro americano da cui deriva. Anche i nostri amati cereali, perfino i più tradizionali, sono stati modificati. Non solo con la semplice selezione, già di per sé alterazione mirata e continua delle genetiche ancestrali, ma anche applicando tecniche più recenti di manipolazione genetica tramite radiazioni o sostanze mutagene al fine di ottenere individui mutanti portatori di caratteri a noi più utili. Il triticale, per esempio, è l’incrocio tra frumento e segale. Qualcosa che in natura avrebbe la probabilità di avverarsi pari a una su incalcolabili miliardi. Noi abbiamo invece usato su di essi un alcaloide, la colchicina, e questa ha raddoppiato il materiale genetico dell’organismo derivante dall’incrocio “contro Natura”, rendendolo fertile. Eppure il triticale si vende anche nei negozi biologici e pure a caro prezzo.

Ciò che lascia basiti è che ai cittadini sono stati mostrati questi cereali come “naturali” e addirittura “biologici”, mentre gli Ogm vengono descritti come catastrofici mostri di Frankenstein. In realtà è da molto tempo che coltiviamo e mangiamo organismi geneticamente modificati per mano dell’Uomo, sarà bene accettarlo. E pensi, alcuni di questi organismi, come appunto il succitato triticale, sono coltivabili perfino in biologico. Per lo meno stando alla normativa attuale che, per assurdo, non li classifica come Ogm. Cosa che potrebbe però cambiare se l’Unione europea legifererà coerentemente a quanto deciso circa un anno fa dalla Corte di Giustizia in tema di biotecnologie. Rivoluzionando infatti lo statu quo, secondo la Corte vanno considerati Ogm tutti gli organismi ottenuti alterandone il DNA in modo artificiale. Tutti, indipendentemente dalle tecniche usate: che sia tramite il modernissimo genome editing o usando l’ormai noto trasferimento di geni da un organismo all’altro, i famigerati “transgenici”, oppure ancora che sia tramite radiazioni o sostanze mutagene. Tutti Ogm. Se lo immagina quanti prodotti che oggi vantano la scritta “No-Ogm” dovrebbero rinunciare al loro marketing del “senza” se la decisione della Corte di Giustizia divenisse Legge? Personalmente non aspetto altro, dal momento che verso il “marketing del senza” nutro una istintiva antipatia.

Pesticidi e agrofarmaci: qual è la differenza? E anche in agricoltura vale sempre il principio che è sempre la dose che fa il veleno?

Pesticida deriva dall’inglese “pesticide”, cioè uccisore di peste. Messa così dovrebbe essere percepito positivamente. Purtroppo, il martellamento allarmista fatto su questa categoria di prodotti ha di fatto trasformato questo termine in qualcosa di mortifero e lugubre. Agrofarmaco significa la stessa cosa, ma è più asettico perché richiama il concetto di cura. In tal caso delle piante. Ma pensi che a un convegno in cui intervenivo come relatore venni contestato perché mentre i farmaci umani vanno benissimo, perché ovviamente grazie ad essi si curano le persone, suvvia… ma le piante… Come se le piante non si ammalassero e non andassero quindi curate. Il mio contestatore riteneva infatti che questi prodotti non solo fossero pericolosi, ma per giunta inutili.

Una percezione altamente fuorviata che affonda le radici in due distinti fenomeni. Da un lato la popolazione ha ormai reciso da troppo tempo i legami con l’agricoltura e finisce col dare per scontato il cibo che le viene messo a disposizione. Dall’altro patiamo di una comunicazione spesso ideologica – e a tratti disonesta – che prima terrorizza le persone contro i pesticidi e poi le illude che vi siano prodotti alternativi, quasi taumaturgici perché non trattati, intonsi, appunto “naturali”.  Di fatto, un secolo fa in Italia avevamo il doppio della terra coltivabile ed eravamo solo 38 milioni contro gli attuali 60. Siamo cioè passati dall’avere oltre seimila metri quadri coltivabili a testa a soli duemila. Per giunta, mentre ai primi del ‘900 il 60% circa della popolazione produceva cibo nei campi, operando in veste di contadini, oggi gli operatori professionali agricoli sono poco sopra l’1%. E questi devono dare da mangiare a tutti gli altri. E già oggi non ce la fanno.

Agli inizi degli Anni 90 l’Italia toccò il 93% dell’autosufficienza agroalimentare. Oggi siamo scesi sotto il 70%. In sostanza, abbiamo quadruplicato la dipendenza dall’estero, con buona pace di chi ostacola le tecnologie agrarie, chimica inclusa, ma poi vorrebbe mangiare solo Made in Italy. Se lo immagina con gli scenari attuali come potrebbero mai fare gli agricoltori a sfamare tutti usando solo zappe, letame e varietà antiche, spesso poco produttive e cariche di problemi, come facevano i loro bisnonni? Dovessimo abolire i pesticidi e i fertilizzanti di sintesi, come da più parti si caldeggia, le produzioni agricole precipiterebbero a picco. Anche perché, dolente ricordarlo, ma anche il Bio usa grandi quantità di pesticidi. Solo che ha stabilito arbitrariamente che quelli che usa lui sarebbero “buoni” perché “naturali”. Quelli “cattivi” li userebbero cioè solo gli “altri”, i non Bio. Niente di più maramaldo come messaggio, perché una molecola è una molecola, indipendentemente dalla sua origine.

Pensi che il rame, ampiamente usato nel biologico, è molto più tossico del tanto vituperato glifosate, l’erbicida ormai alla gogna dal 2015. Secondo le statistiche ufficiali, dati 2016, l’unico agricoltore morto per un’intossicazione durante un trattamento fitosanitario, pensi un po’, è stato ucciso dal solfato di rame. Perché la risposta alla Sua seconda domanda è sì: anche in agricoltura è sempre la dose a fare il veleno, indipendentemente dai prodotti usati. E l’esposizione umana ad essi è del tutto trascurabile rispetto ai grandi benefici che gli agrochimici portano con sé. Del resto, anche un’anestesia dal dentista ha i suoi effetti collaterali, ma sfido chiunque a chiederne l’abolizione…

In sostanza, senza quei prodotti chimici sarebbe carestia, è bene farsene una ragione. Ma carestia di quella dura. Oggi invece possiamo contare su grandi quantità di cibo, abbordabile quanto a prezzi e per giunta sicuro dal punto di vista della salute. Sarebbe infatti bene che la gente leggesse meno gli articoli di media e associazioni allarmiste e consultasse di più i dati ufficiali, sia quelli ministeriali italiani, sia quelli dell’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare). Dati che confermano anno dopo anno la sicurezza dei cibi che mangiamo. Da tempo vengono invece millantati danni catastrofici a carico della popolazione, magari rilanciando discutibili prove di laboratorio, in vitro o su cavie, cioè non esportabili agli scenari reali. Infatti, se poi si analizzano le statistiche sanitarie ufficiali non si trova alcun riscontro di tali Armageddon sanitari. Peraltro, chi non fosse persuaso di ciò, sarebbe forse utile inviarlo con la macchina del tempo nell’Irlanda di metà ‘800, quando la carestia portata dalla peronospora delle patate causò un milione di morti. Quelli sì accertati, mica millantati. Bastò un solo patogeno, su una sola coltura, e fu una strage dalle proporzioni bibliche.

Invece oggi si campa sempre di più, siamo più alti di 15 centimetri rispetto a un secolo e mezzo fa, abbiamo debellato rachitismo e pellagra. Direi che potremmo anche essere contenti. Al limite, sarebbe cosa intelligente curare meglio la propria alimentazione e i propri stili di vita, perché la cosa assurda è che la maggior parte dei nostri malanni li incentiviamo proprio noi con una vita sedentaria e abitudini poco sane da un punto di vista alimentare e comportamentale. Ma cambiare i propri stili di vita è dura, meglio quindi dare la colpa a qualche mostro di turno. Anche se poi tanto mostro quello non è.

Quindi la naturalità contrapposta ai prodotti della scienza è una percezione irrazionale?

Assolutamente sì. Fra le tossine più letali al Mondo ricadono quella del Clostridium botulinum, della Rana d’oro e del pesce palla. Migliaia o milioni di volte più letali del peggiore pesticida mai inventato dall’Uomo. Anche perché talvolta il confine fra prodotto naturale e di sintesi è davvero difficile da fissare. Dimetomorf, un antiperonosporico ampiamente usato in viticoltura e in orticoltura, è un derivato dell’acido cinnamico, cioè dalla cannella. Mesotrione, diserbante per il mais, è stato ricavato modificando la struttura di una sostanza naturale secreta da alcune piante del genere Callystemon. Queste producono tali erbicidi intorno a sé per fare piazza pulita delle piante concorrenti. Cioè esattamente quello che facciamo noi nei nostri campi coltivati per difendere il nostro cibo. Noi non abbiamo fatto altro che modificarla quel tanto che bastava affinché diventasse selettiva per il granturco, altrimenti avrebbe ucciso anche lui. E questo solo per gli agrofarmaci. Dallo Staphylococcus aureus, un batterio patogeno, è stata estratta una tossina letale per altri batteri, anche verso quelli divenuti ormai resistenti agli antibiotici. Un problema che già oggi uccide al Mondo centinaia di migliaia di persone.

Peccato che quella tossina dello Stafilococco fosse tossica anche per noi. I ricercatori sono però riusciti a modificarla strutturalmente affinché mantenesse la propria efficacia antibiotica, divenendo molto più tollerabile per il nostro organismo. In sostanza, la molecola modificata dall’Uomo è migliore di quella prodotta dalla natura.

Siamo davvero sicuri quindi che naturale sia migliore di sintetico? Forse è spesso vero il contrario, sapendo che negli Stati Uniti sono triplicati i casi, dal 7 al 20%, di persone che si sono danneggiate il fegato, anche gravemente, abusando di integratori vegetali “naturali”. Illusisi che fossero innocui, proprio perché naturali, quelle persone ne hanno abusato arrecandosi gravi danni alla salute. Il sonno della ragione genera mostri…

Una dieta sana si deve basare sui tre principi fondamentali: via pesticidi ed erbicidi, mangiare solo quello che il contadino coltiva con le sue mani, consumare prodotti a km 0. In soldoni questo viene comunicato in molte scuole anche da dietologi e nutrizionisti, in questo caso quindi non siamo di fronte ad una emotività intrisa di amarcord. Che fare?

I famosi ortaggi del contadino erano quelli con cui si prendevano Salmonella, Escherichia e toxoplasmosi, magari crepando pure per il botulino contenuto nelle conserve fatte in casa. Nel 2011 una partita di germogli di soia uccise 51 persone in Germania perché contaminata da Escherichia coli. Ed erano Bio, per somma sorpresa. Anche oggi vi sono saltuari problemi di contaminazione batterica, come nel caso dei meloni alla Listeria che di morti ne hanno provocati sei, ma la loro incidenza è divenuta minima grazie proprio ai controlli maniacali delle filiere agroalimentari legate alla grande distribuzione organizzata. Circa poi la dieta sana, questa si deve basare banalmente su un buon equilibrio di carboidrati, grassi e proteine, animali e vegetali, meglio se contornati da ricche porzioni di frutta e verdura. Non c’è nutrizionista serio che non riassuma il tutto con questi elementari concetti. Tutto il resto è marketing.

Si può avere un’alimentazione assolutamente esemplare e sanissima anche facendo la spesa solo nei supermercati, magari evitando accuratamente ogni prodotto “alternativo”. Non c’è nulla che non vada nei prodotti convenzionali di largo consumo. Sono iper controllati e contengono tutto ciò di cui abbiamo bisogno, a dispetto delle campagne di demonizzazione che subiscono. Provate a prendere un euro e mettetevi di fronte alle cassette dell’ortofrutta. Poi chiedetevi quante verdure e frutti potreste portare a casa con quell’euro comprando prodotti convenzionali oppure “alternativi”. La risposta ve la darete da soli, visti certi prezzi. E l’importante è mangiarne tanta di ortofrutta. Sempre, indipendentemente dal bollino che ci sta appiccicato sopra. Il KmZero è poi meraviglioso quando si è in vacanza in un luogo ameno, ricco di prodotti che di solito non si trovano a casa propria, ma poi per le altre 50 settimane dell’anno? Io vivo nel Cremonese: mi dice cosa trovo a KmZero nei 12 mesi dell’anno se non mais, soia, orzo ed erba medica? Certo, carne e latticini li avrei sotto casa, ma gli agrumi? Le pesche? Il riso? Le mele? Zero. Mi verrebbe lo scorbuto in tre mesi.

Piaccia o meno, il nostro spostamento demografico nelle città ha innescato logiche di filiera agroalimentare basate sul trasporto delle merci dai luoghi di produzione a quelli di consumo. Non è bello, certo, ma al contempo è inevitabile. E tornare indietro non si può, checché se ne dica, a meno di una catastrofe globale che riducesse del 90% la popolazione e ci riportasse ai tempi degli antichi Romani, col bue e l’aratro calcato a mano. Uno scenario che di romantico e bucolico direi che ha davvero poco e che risulterebbe invivibile per la maggior parte dei detrattori dell’attuale agricoltura.

Glifosate e viticoltura è un matrimonio destinato a finire. Quali saranno le conseguenze immediate?

Dal 2015 glifosate è divenuto il parafulmine sul quale scaricare tutto l’astio verso l’agrochimica.

È l’agrofarmaco più utilizzato al Mondo, in più lo ha inventato Monsanto, la multinazionale più odiata in assoluto, anche per aver messo a punto gli Ogm resistenti appunto a glifosate. Insomma, la tempesta perfetta per gli haters di chimica, ogm e multinazionali. La sua caduta in disgrazia, però, è coincisa con la monografia 112 della Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, la quale ha posto glifosate nel Gruppo 2A, quello dei “probabili cancerogeni per l’uomo”. L’ondata dei media ha fatto il resto. A poco è servito che la stessa Oms, di cui Iarc è una costola, abbia smentito l’Agenzia. Né è servito che ogni autorità di regolamentazione operante al Mondo abbia ribadito la non pericolosità per l’uomo, dal Canada all’Australia, dagli Usa alla Nuova Zelanda, dall’Europa al Giappone: glifosate non è un probabile cancerogeno per l’Uomo, sarà bene accettarlo. Ma ormai la gogna inquisitoria era partita e nulla è valso a fermarla. Una gogna che non si è fermata nemmeno quando sono emerse le inaccettabili relazioni economiche del Presidente di quel gruppo di lavoro, Christopher Portier, con gli studi legali che stavano preparando la lucrosa class action contro Monsanto. Né pare abbia disturbato il fatto che Aaron Blair, coordinatore scientifico di quel gruppo, abbia tenuto nei propri cassetti lo studio epidemiologico più robusto mai fatto su glifosate che dimostrava la sua non cancerogenicità.

Un insabbiamento che visto alla rovescia avrebbe fatto sicuramente urlare allo scandalo, se quella ricerca avesse dimostrato la cancerogenicità dell’erbicida e fosse stato tenuto “misteriosamente” inaccessibile. Perfino il Comitato scientifico del Congresso americano ha chiesto lumi alla Iarc su una decina di strani e inspiegabili cambiamenti dell’ultimo secondo apportati alla monografia 112, girando in negativo dei giudizi preliminari dal neutro al positivo. Modifiche cui Iarc si è sempre rifiutata di dare giustificazione, mostrando in tal modo anche una notevole arroganza. Perché l’indipendenza procedurale è nulla senza la necessaria trasparenza. Insomma, una serie di situazioni del tutto sufficienti a far ritirare quella monografia e rifarla da capo. Magari senza prezzolati consulenti di studi legali fra i presenti. Ormai però l’erbicida è preso di mira un po’ ovunque, venendo bandito ora da questo Comune, ora da quell’altro. Come se l’abolizione di glifosate dalle vigne le potesse trasformare in un rinnovato Eden incontaminato.

In viticoltura, mediamente, su cento chilogrammi di agrofarmaci di glifosate se ne adopera uno. Uno! Altri 69 chilogrammi sono in base zolfo, 11 sono rameici e altri 19 sono prodotti vari di sintesi. In sostanza, anche un viticoltore convenzionale usa per l’80% dei prodotti ammessi in biologico. Togliere quel chilo su cento di glifosate appare quindi scelta meramente demagogica, priva di alcun significato tecnico, ambientale e sanitario. Peraltro, proibire glifosate sulle colline obbligherà a reiterati passaggi con macchine sotto i filari. Tanta terra che verrà quindi smossa, anziché restare compatta, a tutto favore di eventuali erosioni dovute alle piogge. E tanto, tantissimo gasolio in più consumato. E un chilo di gasolio diventa circa tre chilogrammi di anidride carbonica immessa nell’atmosfera. Siamo sicuri che dal punto di vista ambientale sia un vantaggio?

Peraltro, la gente non sa che glifosate continua a restare alla base dei diserbi di grandi arterie stradali e ferrovie. Anche proibendolo nei vigneti, le acque del trevigiano continueranno a mostrare tracce di glifosate comunque. E pure di Ampa, suo metabolita. Peccato che nessuno dica che esso deriva anche da diversi detersivi impiegati nelle case. Un’informazione che, come al solito, è stata fatta circolare dal poco al nulla. Sa che per dare da mangiare a un Italiano per un anno tutti gli agricoltori messi insieme, da Bressanone a Ragusa, applicano alle proprie colture un solo chilo di sostanze attive? Un chilo a testa di agrofarmaci, per mangiare un anno.

Ho fatto qualche conto in casa mia e fra detersivi, prodotti per l’igiene della casa e della persona usiamo oltre 60 litri di prodotti. E siamo in tre. Venti litri a testa, per tenere pulita la nostra vita, per sgorgare i lavandini, per igienizzare water e pavimenti, per lavare i piatti, i nostri vestiti e le nostre persone. E in tre consumiamo circa tre tonnellate di carburanti all’anno con le nostre autovetture. Capite bene che se davvero la popolazione tenesse all’ambiente e alla salute, più che attaccare gli agricoltori qualche domanda dovrebbe forse iniziare a porla a se stessa…

Il rapporto tra l’agricoltura e la biodiversità è un sistema complesso. Quanto vale l’equazione BIO=maggiore biodiversità?

Onestamente? Zero. L’agricoltura è la prima forma di impatto sulla biodiversità operata dall’Uomo. Nel momento stesso che convertiamo in terra coltivabile un ettaro di foresta o di prateria, la biodiversità di quel terreno precipita fino quasi ad annullarsi, indipendentemente da ciò che vi coltiverò dopo, soia ogm o peperoni bio. In più, il 40% delle emissioni di gas serra addossate all’agricoltura derivano proprio dai processi di conversione ad agricoli di terreni selvatici. Il biologico ha rese inferiori a quelle convenzionali e quindi a parità di cibo prodotto obbligherebbe a maggiori disboscamenti e conversioni di praterie, cioè il peggio che possa accadere al Pianeta, ma si è accaparrato furbescamente questa immagine di agricoltura salvifica quando in realtà le pratiche virtuose da seguire sono molteplici e non sono esclusiva di alcuno.

Pensi alla semina su sodo dei cereali. Invece di arare, erpicare e poi seminare, si semina direttamente sul terreno intatto. In studi trentennali svolti dall’Università delle Marche si è visto un aumento drastico della sostanza organica e delle popolazioni di lombrichi nel terreno. Inoltre, sono stati più che dimezzati i consumi di gasolio ed è stata contrastata in modo eccellente l’erosione dei suoli. Peccato che per eseguire tali pratiche serva prima un diserbo con… indovini? Glifosate. Perché altrimenti la seminatrice non riesce ad avanzare in un campo pieno di erbacce.

In sostanza, sono le tecnologie nel loro complesso da finanziare, non solo quelle di specifiche attività agricole. Per aumentare la biodiversità si può peraltro agire realizzando corridoi biologici lungo i territori, come fatto per esempio in Trentino. Dove per biologici non si intende ovviamente “da agricoltura bio”, bensì corridoi che siano funzionali al passaggio di fauna selvatica da un’area all’altra favorendone il ripopolamento e gli equilibri naturali. Oppure gioverebbe trasformare in aree rifugio alcune porzioni di terreno, non necessariamente agricolo, in modo che fra le varie essenze spontanee possano trovare rifugio e moltiplicarsi innumerevoli animali, api comprese.

La biodiversità è infatti faccenda territoriale, non solo agricola. Ci rendiamo conto che a dare addosso all’agricoltura è spesso il cittadino che ha appena impermeabilizzato col cemento una bella fetta di suolo, costruendovi sopra la propria villetta immersa nel verde? Treviso, per esempio, è una delle provincie italiane a maggior vocazione edilizia. Case su case. Strade su strade. Capannoni su capannoni. E il territorio, il paesaggio e la biodiversità la si difenderebbe obbligando al bio i viticoltori? Ma non scherziamo, suvvia. Se continueranno su questa strada presto al posto di villette immerse nel verde ci si troverà con un po’ di verde immerso fra le villette. Però senza glifosate… Una commedia dell’assurdo.

Grazie Donatello